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di Daniele Lugli

Franklin Delano Roosevelt enunciò quattro nobili libertà: due ‘di’parola e credo – e due ‘da’indigenza e paura. Fu all’epoca del mio concepimento. Forse per questo mi sono tanto care. Dopo oltre tre quarti di secolo non le riconosco più, anche se le sento ancora proclamare.

Credo sia successo che alla libertà dalla paura si sia sostituita la libertà, o meglio il trionfo, della paura, che si è evoluta in paranoia. Lo va ripetendo Zoja e penso abbia ragione. La nostra convivenza ci presenta problemi difficili da individuare nelle loro cause e per i quali non appaiono rimedi a portata di mano. La risposta giusta sarebbe cercare ancora, ma la cosa va avanti da troppo tempo. Noi siamo abituati alla velocità. Le nostre menti cercano una spiegazione vicina e la trovano in meccanismi primitivi: “Quando il normale equilibrio di una tribù viene alterato, per trovare una spiegazione in mancanza di comprensione dei fenomeni si ricorre dapprima ai sacrifici umani poi al rito del capro per espellere il male. Questo semplifica la realtà e ha un effetto benefico nel gruppo che recupera fiducia”. Lo abbiamo fatto già, lo stiamo facendo ora.

Il contagio psichico che ci rende paranoici si appoggia sulle grandi e irrinunciabili libertà di parola e di credo, alle quali la tecnica ha fornito strumenti straordinari: “Tutti parlano di una minaccia ed è come se fosse qui. Qualcosa di cui si parla, dal punto di vista psicologico, equivale a una presenza reale, anche senza presenza fisica”. Le fonti di contagio si moltiplicano così fuori da ogni capacità autocritica e da ogni controllo. La minaccia è così grande e oscura che chi la mette in dubbio fa parte della congiura e merita ogni aggressione, che, per il paranoico, è pura difesa della propria vita. Gran parte del linguaggio usato sui social ha questa spiegazione. Il credo del paranoico è certamente libero, del tutto libero da ogni verifica: “Hitler non ha bisogno di dimostrare le sue tesi, perché se da un punto di vista scientifico non hanno fondamento da quello psicologico rappresentano un bisogno così primario da risultare credibili”. Ogni delirio ha cittadinanza e pretende rispetto.

Quanto alla trascurata libertà dall’indigenza, “le analisi economiche confermano che da mezzo secolo le retribuzioni reali di gran parte della classe media Usa non aumentano. C’è stato un aumento di ricchezza ma concentrato al vertice. La follia sta nel fatto che per combatterlo si vada a votare per qualcuno che sta in quel vertice e che vuol togliere i servizi sociali ai poveri. Cioè l’irrazionalità dei tempi peggiori degli Anni ‘30 purtroppo è dietro l’angolo anche oggi e anzi, negli Stati Uniti c’è già”. E noi ci stiamo attrezzando per seguirne l’esempio. Se non possiamo liberarci dall’indigenza, possiamo provare a liberarci di quanti più indigenti possibile o almeno dalla loro vista, dal loro contatto, dopo averne spremuto quanto c’è da spremerne. In questo sta una spiegazione delle politiche (e quelle italiane, visto il panorama che ci circonda, non sono le peggiori) nei confronti degli immigrati.

Zoja una speranza ce la offre con “un bellissimo passaggio di Freud secondo il quale un argomento ragionevole, razionale, alla lunga vince. Il problema è che la ragionevolezza ha bisogno di tempo mentre l’irrazionalità di questi contagi è più veloce e presto prende il piano inclinato. Tipico esempio sono le guerre”. Occorre, credo, un’azione politica che vada in profondo, con il tempo e la persuasione che sono necessari. Qualcuno ce l’ha detto in tempi e modi diversi. Mi limito a ricordarne solo due letti, Gobetti e Gramsci, e due conosciuti, Lombardi e Langer. Certo non ci serve una politica che rincorre la paranoia, che ha sostituito l’ideologia.

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Redazione di Periscopio



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