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C’era una volta un sindaco, a Ferrara, che si chiamava Roberto Soffriitti ed era uno dei loro, cioè un bieco comunista. C’erano – e forse ci sono ancora – due schiatte sociali, i signori padroni e i lavoratori, operai e impiegati, gente da basto, da bastone e da galera, insomma il paradiso e l’inferno: dietro ogni angolo si nascondeva un assassino in camicia rossa, ora più semplicemente in scarpe da tennis, pantaloni stracciati e possibilmente telefonino incorporato. Sempre più difficile distinguere le appartenenze visto che i figli dei signori sembrano i rampolli di operai, quelli che restano, di operai dico, perché le macchine di ogni genere, piccole e grandi, semplici o complicate, manuali o informatizzate, troppo spesso pericolose e omicide, macchine che schiumano chimica e ammazzano anche chi sta più lontano, come mamme e bambini, sono diventate armi micidiali, subdoli carri armati invisibili, dissolti nell’aria e respirati a pieni polmoni.

Non è che anche allora, prima metà degli anni Novanta, quando Soffritti fu nominato sindaco in sostituzione del suo predecessore che andò a Roma, le armi micidiali e subdole non ci fossero, semplicemente non si pensava che fossero nascoste ovunque, anche nel giardinetto di casa, il veleno era diventato un sacro compagno di vita. Non era facile un terzo di secolo fa, quando ancora giravo per l’Italia su e giù, capire che oramai il problema ecologico era diventato un primario argomento politico, chi osava dirlo veniva accusato di essere un catastrofista, un disfattista, minimo minimo un pericoloso pessimista. Se gli raccontavo le macabre storie delle fabbriche in Lombardia, in Liguria, in Piemonte chiuse, falcidiate dal cancro contratto sui luoghi di lavoro, un sorriso di compatimento nasceva sui volti di datori di lavoro, di impiegati, di sindacalisti. E la gente moriva. Senza sorrisini di compatimento. “Bisogna fare la rivoluzione”, dicevo al mio sindaco, che spesso mi stava dietro le spalle, poi mi metteva una mano sulla spalla e mi diceva in dialetto: “Gian Pietro, a tiè un poeta”. E se ne andava. Inutile ricordargli ciò che scrisse Victor Hugo: “Soltanto quando governeranno i poeti ci sarà giustizia”. Ma allora tutto sembrava andare nel verso giusto a Ferrara: Farina aveva inventato le grandi mostre, celebrate e poi copiate in tutto il mondo, da Roma arrivavano i fondi per recuperare le Mura e trovare l’acqua calda nel sottosuolo, il danaro contante giungeva dalle casse gonfie della benedetta Coop Costruttori, le prebende venivano suddivise tra Pci, Psi e poi gli altri a scendere, Soffritti era molto attento alla spartizione degli incarichi, la Cassa di Risparmio s’ingrandiva fino a scoppiare, Ferrara sembrava diventata Bengodi.

Ma c’era un inghippo: i soldi finivano quasi sempre nelle tasche più note, mentre cominciavano a giungere attorno al Castello le facce straniere, gli slavi scivolavano giù dall’Est confondendosi – per il colore della pelle – con la popolazione autoctona, i ferraresi non protestavano, erano democratici i ferraresi, porca miseria se erano democratici! Tutti avevano dimenticato! Poi arrivarono le facce scure, anzi nere, e l’antico razzismo si diffuse sulle bancarelle; i negozi più popolari furono affittati a organizzazioni, sempre più forti, di venditori cinesi o bengalesi; i bar, antico crocevia di amicizie, di scambi di opinioni dimenticarono lo strascicato discorrere locale, il dialetto senza doppie, la “s” che si pronunciava “sc”: niente di male se questo disordine sociale fosse stato (e fosse) pilotato. No, i bambini appena sanno stare i piedi vengono mandati nei negozi a maneggiare frutta, di scuola nemmeno parlare, crescono così i bambini senza educazione civica e con le mani sozze. Ma la città non è un campo, non un piccolo agglomerato di case senza ordine: non erano questi i problemi ai tempi del primo Soffritti, l’errore à stato lasciare che le cose andassero avanti alla bengodi. Una nostra collaboratrice domestica un lunedì disse: “Ho portato ieri i bambini a vedere il Castello”. Meno male – ho pensato – ma era il supermercato. Bartolino da Novara, poveretto, si è rivoltato nella tomba.

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Gian Pietro Testa



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