Caso Aldrovandi, le ‘tricoteuses’ ovvero il mal riposto senso dell’onore
Nei vecchi film la cattiveria delle tricoteuses che, insediate sotto la ghigliottina sferruzzavano in attesa che la lama calasse sul collo dei nobili francesi lasciando solo un momento il lavoro a maglia per applaudire freneticamente, erano un classico dei film di genere fatti per soddisfare la “pancia” (e termine più giusto e più volgare non si potrebbe inventare) di chi crede che solo al sopruso si possa rispondere con la violenza e la derisione. Questo è stato il primo pensiero che mi è venuto in mente alla notizia dei cinque minuti di applausi ai tre agenti implicati nella morte di Federico Aldrovandi.
Non ho mai volontariamente preso posizione pubblica nella vicenda Aldrovandi per rispetto al dolore della famiglia e per una concessione d’appello etico verso quelle forze dell’ordine che, come ben aveva identificato il pensiero di Pasolini, rappresentano mediamente la classe sociale più umile. Ma è ora chiaro che qualsiasi forma di giustificazione cede di fronte alla violenza cieca di quell’applauso che uccide per un malinteso concetto del “servizio d’ordine”, per una malvagia idea di giustizia che plaude alla violenza e alla soppressione della vita umana. Una violenza moralmente condannabile quanto la riprovazione per la morte stessa provocata al giovane Aldrovandi proprio perché nata da una falsa giustificazione morale, da una violenza ideologica ed etica. A sua volta resa più bieca dalle parole terribili espresse dal vertice del Sap, il sindacato autonomo di polizia, e delle sempre più inaccettabili dichiarazioni dell’onorevole Giovanardi. Penso alla voce untuosa di un capo del Sap che parla di “ossequioso” rispetto del dolore della famiglia. Ma sa l’illetterato signore cosa significa l’aggettivo “ossequioso” e il suo sostantivo “ossequio”?
Siamo nella più bieca tradizione di un formalismo per cui la retorica si fa strumento di falsità. Si pensi alla frase un tempo così usata dalla piccola borghesia: “porga i miei ossequi alla sua signora” che diventa un modo terribilmente retorico per significare un concetto così semplice come “mi saluti sua moglie”. Tutta la retorica di cui si ammantava un tempo nella sua vacuità chi si credeva deputato all’uso di parole inutili. Si risponde così a un atto eticamente rivoltante con il formalismo di piccoli funzionari, per fortuna pochi, dal pensiero miserevolmente pericoloso.
Del resto, a esclusione dei soliti noti presenti al congresso del Sap, o al commento del già citato Giovanardi, lo scatto morale dei vertici politici e istituzionali è stato unanime e questo consola: da Napolitano, alla Boldrini a Grasso, a Renzi, ad Alfano fino a Pansa capo della Polizia e per li rami fino al sindaco di Ferrara Tizano Tagliani. Una quasi unanimità che almeno conforta nella tenuta di certi valori non commerciabili con il risentimento e la protesta di chi si crede offeso nei propri diritti nonostante l’inequivocabile giudizio della magistratura e del comune senso etico. Non si possono applaudire coloro che hanno applicato la violenza sia pure – lo si conceda pur non condividendolo – per un travisato senso del proprio compito. La mancanza di un dignitoso silenzio, l’insistita reiterazione di un pensiero eticamente non condivisibile fanno regredire coloro che hanno applaudito e che purtroppo fanno parte delle forze dell’ordine a tempi bui di cui ancora il nostro tempo non sembra essere immune. Ho ammirato e ammiro l’indomito coraggio della mamma di Federico Aldrovandi ma anche la dignità silenziosa del padre e mi commuove la stanchezza di una madre coraggio che vorrebbe ritornare nella vita di ogni giorno e non viverla come un evento ogni giorno eccezionale.
Eppure da questa tristissima vicenda una luce di speranza si è accesa. E quella proviene proprio dalla condanna dei politici e delle istituzioni a un atto tanto inaudito quanto non necessario. Questa è la vittoria più clamorosa della famiglia Aldrovandi.

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Gianni Venturi
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)