Caro Draghi, anche se tu ti credi assolto, sei lo stesso coinvolto
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Tre giorni fa Francesco Monini su questo quotidiano, intuendo la frittata che sarebbe sortita dalle repentine dimissioni del ‘formica elettrica’, ha attaccato duramente e preso in giro Mario Draghi [Vedi qui]. Devo invece confessare che, circa due anni fa, anche io avevo riposto alcune disincantate aspettative (ossimoro dettato dalla prudenza) in Mario Draghi (leggi qui). Per carità: non ero convinto che l’intervento del Drake versione libero pensatore, pubblicato sul Financial Times il 25 marzo 2020 (leggi qui), un mese scarso dopo l’esplosione mondiale della pandemia, lo avesse trasformato nel nuovo John Maynard Keynes.
Non ne ero convinto, anche se in un angolino del mio cervello albergava la speranza. Del resto, scusate, Draghi allora scrisse cose come questa: “Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.”
Ha scritto “debiti cancellati”. Lo ha scritto lui, ed io ho pensato: toh, ha capito che questa non è una crisi come le altre, questa è una crisi che impone un cambio di paradigma. Attenzione, perché scrisse anche questo: “O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva”.
Lì pensai: la situazione è veramente pesante se lui arriva a dire queste cose (sacrosante). Ma ciò che più mi sorprese e al contempo mi rinfrancò fu quando lessi: “I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.”
Capite? L’incremento del debito come male necessario e largamente preferibile alla distruzione della base produttiva. E infine: “Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.”
Queste non sono parole di un banchiere. Queste sono parole di uno statista.
Un anno dopo Draghi è diventato Presidente del Consiglio, spintoci da persone che lo hanno individuato come uno dei pochi (l’unico?) in grado di attuare certe linee di politica economica, perché dotato della credibilità e della affidabilità necessarie per attuarle senza farsi bacchettare dai burocrati del pareggio di bilancio e senza farsi condizionare dalle consorterie di partito.
Bene. Le ha attuate?
200 euro una tantum, 85 milioni per l’innovazione digitale a scuola, fino a 840 euro (tetto massimo) per le famiglie con handicap (eredità del precedente governo); negazione del reddito di cittadinanza a chi rifiuta una “offerta di lavoro congrua”; blocco sostanziale del superbonus per eccesso di abusi (che però parrebbero soprattutto esserci stati sul bonus facciate); rimodulazione Irpef sostanzialmente piatta, che ha restituito più potere d’acquisto a chi guadagna di più e meno a chi guadagna meno, con buona pace del criterio della progressività, e dell’idea della redistribuzione. Sto tenendo fuori i fatti che Draghi non poteva prevedere: la guerra e la conseguente impennata dei prezzi, rispetto a cui le misure adottate finora non sono minimamente avvertibili.
C’è uno scarto abissale tra il Draghi visionario del marzo 2020 e il Draghi capo di un governo che risponde con misure stitiche alla più grave crisi del secondo dopoguerra.
Non sono così ingenuo da pensare che fosse possibile trasporre integralmente, declinandole in provvedimenti di concreto e strutturale aiuto a famiglie e imprese, le linee da Piano Marshall da lui delineate in quell’intervento. Ma se devo pensare che questa sia stata la visione che lo ha ispirato, dovrei definire la sua gestione di questi 500 giorni di governo totalmente fallimentare.
Il fatto che sia caduto proprio adesso è considerata una sciagura perché proprio adesso stava arrivando il bello, la ciccia; i soldi del Pnrr, la riforma del fisco, quella della giustizia, il tetto al prezzo del gas (notare che la Spagna lo ha già introdotto, e noi no; quando pensiamo di introdurlo, invece di limitarci a dichiararlo?). A parte che suona comico questo “proprio adesso”, dopo che sono passati 516 giorni, non 56. Ma io chiedo: di chi è la responsabilità di avere messo “proprio adesso” nei casini il Paese, quel Paese nell’interesse del quale tutti, a partire da Draghi, dichiarano di agire?
I 5 Stelle hanno posto dei temi sociali all’attenzione del Governo. Se ci fossero state delle reali aperture, non credo che avrebbero rifiutato di votare la fiducia al cosiddetto Decreto Aiuti. Hanno fatto una cosa irresponsabile? Non saprei. Se avessero ritirato tutta la delegazione di ministri avrebbero fatto un passo da cui non potevano tornare indietro, ma non lo hanno fatto, per cui hanno lasciato la porta aperta.
Forza Italia e Lega non hanno votato la fiducia perché il Governo l’ha posta unicamente su una risoluzione del PD, firmata Casini, che diceva in sostanza “va bene quello che ha detto Draghi, punto e basta”. Irresponsabili pure loro? Può darsi.
Ma questa irresponsabilità va equamente divisa, perché se la logica è questa, c’è un terzo irresponsabile: Mario Draghi.
Il suo Governo, infatti, non è stato sfiduciato. Anzi, ha ottenuto nuovamente la fiducia della maggioranza del Parlamento. Nonostante questo, Draghi ha confermato le sue dimissioni.
In pratica ha detto: se non ci sono dentro tutti quelli di prima, io non ci sto più, però devono fare quello che dico io. Se non è un peccato di arroganza questo, vorrei capire cos’è. Dietro questo sfarinamento si intuisce chiaramente una difficoltà anche nella gestione di rapporti personali, e quando gestisci un gruppo da primus inter pares questa incapacità non è un difetto da poco.
Quindi Mario Draghi se ne va pur non essendo stato tecnicamente sfiduciato, ed è una mossa che personalmente non comprendo.
Se avesse a cuore i problemi che lascia aperti sul campo, se ne occuperebbe con un Governo dalla maggioranza più risicata ma sicuramente dalla linea più coesa. Invece è come se dicesse: io me ne vado, e se dopo di me deve diluviare, che diluvi. Non la trovo una mossa da statista.
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Nicola Cavallini
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