CARLO BONOMI, NUOVO BOSS DI CONFINDUSTRIA:
la vecchia, inutile ricetta neoliberista ai tempi del Coronavirus
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Mentre è iniziata la cosiddetta fase 2 e il governo continua a prendere provvedimenti in una logica sostanzialmente emergenziale (prima il decreto marzo, ora il decreto maggio), vale la pena alzare un po’ lo sguardo e ragionare su come affrontare la crisi sanitaria, economica e sociale, che si preannuncia la più pesante dal secondo Dopoguerra, con un’ottica di medio termine. E’ necessario farlo, perché gran parte della politica continua a muoversi in una logica di breve periodo, quasi che avesse introiettato dall’economia il fatto di considerare i risultati entro quell’ambito ristretto.
Ancor più perché, se lasciata a stessa, la crisi è destinata a produrre disuguaglianze ancora più forti di quelle già inaccettabili presenti oggi e a peggiorare le condizioni della parte più debole e povera della società. Già ora se ne intravedono le avvisaglie e, purtroppo, anche le volontà: mi riferisco in particolare a Confindustria che, per bocca del suo presidente in pectore Carlo Bonomi, senza grande clamore, ma con una forte azione di lobbing, ha già stilato una “piattaforma” di interventi che vanno in quella direzione. Dal momento della sua designazione, che sarà definitivamente ufficializzata il 20 maggio, il capo degli industriali ha inanellato una serie di richieste che non solo sono corporative – la gran parte delle risorse vanno date alle imprese – ma che delineano un quadro decisamente regressivo e pericoloso.
PRIMA RICHIESTA: superamento, cioè eliminazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Attaccandosi al fatto che la ripresa produttiva necessita di forte flessibilità nel lavoro e nelle turnazioni, Bonomi rilancia un vecchio cavallo di battaglia padronale, chiede cioè che la contrattazione avvenga solo a livello delle singole aziende, dove si pensa che i rapporti di forza siano più favorevoli e che, comunque, pesino di più la differenza delle varie situazioni, sia per far accettare i ‘necessari sacrifici’ nelle situazioni di crisi, sia per premiare e costruire consenso e fedeltà alle filosofie aziendali, laddove l’andamento dell’impresa è positivo.
Siamo di fronte ad un attacco senza precedenti a quel che rimane del tessuto solidaristico del lavoro, già ampiamente slabbrato negli anni passati attraverso l’abrogazione di fatto della tutela dei licenziamenti individuali operata dai governi Monti e Renzi e l’estensione abnorme delle tipologie di lavoro precario, che diventerebbe così la forma ‘normale’ del lavoro.
SECONDA RICHIESTA: semplificazione delle procedure amministrative, contro la ‘burocrazia imperante’. Il che tradotto, in termini concreti, significa di fatto annullare le certificazioni, rendere labili i controlli e lasciare mano libera alle imprese: pensiamo, ad esempio, a cosa vuol dire, in termini di appalti, sicurezza del lavoro e svolgimento delle grandi opere.
TERZA RICHIESTA, proprio fresca di questi ultimi giorni, che ha quasi dell’incredibile: abolizione dell’IRAP ( Imposta Regionale Attività Produttive) sulle imprese, la tassa che finanzia il sistema sanitario. Sì, avete capito bene, togliere risorse alla sanità, ma – non preoccupatevi – ci può essere una soluzione, quella suggerita dal presidente dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana) Giovanni Sabatini, che propone di utilizzare i fondi del MES, il Fondo europeo istituito da ultimo per le spese sanitarie, uno strumento peraltro troppo rischioso e ambiguo, anche dopo l’ultimo accordo in sede di Eurogruppo. Togliere dunque l’IRAP alle imprese e lasciare alla fine inalterato il finanziamento alla sanità. Proprio un bel capolavoro: una bella partita di giro tra utilizzo del MES e sgravi fiscali indiscriminati alle aziende, tra nuovo debito pubblico e risorse agli imprenditori.
Infine, ci sono i NO, pesanti come macigni: No alle nazionalizzazioni, però con la solita variante furbetta. Siccome si sa che lo Stato dovrà intervenire per sostenere aziende e settori in crisi (pensiamo solo al trasporto aereo, dove non solo non si sfugge all’intervento pubblico per Alitalia, e dove persino il rigido governo tedesco pensa ad un’iniezione di denaro pubblico in Lufthansa). Per Bonomi deve essere ben chiaro che l’intervento di capitali pubblici è solo temporaneo, serve per risanare le situazioni compromesse, per poi ridare spazio agli investitori privati: un’ idea peraltro già sperimentata in passato, che si riassume nella socializzazione delle perdite e nella privatizzazione dei profitti.
L’altro NO è quello alla riduzione dell’orario di lavoro, anche se fosse interamente finanziato dallo Stato senza oneri per le imprese, una proposta timidamente suggerita da alcuni settori del governo (sollecitati in questo dal sindacato), per essere poi prontamente ritirata. La riduzione dell’orario di lavoro sarebbe stata una misura seria e sensata, soprattutto in previsione delle difficoltà occupazionali che già si vedono e che diventeranno ancora più robuste, ma che agli occhi di Confindustria appare come il famoso drappo rosso davanti al toro: parlare di riduzione d’orario è tabù, non si sa mai che poi qualcuno possa immaginare che un nuovo modello sociale e produttivo possa poggiare anche su una redistribuzione dell’orario di lavoro e magari anche sulla piena e buona occupazione.
Insomma, quello di Carlo Bonomi è un vero e proprio manifesto-proclama del neoliberismo ai tempi del Coronavirus. Non paghi dei disastri prodotti negli anni passati, quella della crisi iniziata con il 2008 ed esplosa nel nostro Paese nel 2011, di fronte alla quale gli alfieri del neoliberismo hanno ispirato pesanti politiche di austerità, con la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici, compresa la sanità, lo smantellamento dell’art. 18 e del diritto del lavoro, la controriforma della previdenza, ora ripropongono la stessa filosofia nelle nuova grande crisi. Facendo finta di non vedere che non può funzionare, perchè la centralità dell’impresa e l’autoregolazione del mercato non possono comprimere più di tanto le condizioni di vita e lavoro e la stessa rappresentanza imprenditoriale non può sottrarsi alle responsabilità di aver contribuito a portarci fin qui. Anche per quanto riguarda la pandemia, che non è semplicemente un fatto ‘naturale’, un tema epidemiologico e di salute, ma è anche un dato sociale a tutti gli effetti, che ha a che fare con le politiche di sfruttamento ambientale, di rottura degli equilibri nelle relazioni tra uomo, animali e natura, di organizzazione sociale e sanitaria in senso lato, tutte permeate da una logica di appropriazione privata e ricerca del profitto.
Allora, è evidente che bisogna prendere tutt’altra strada e bloccare queste intenzioni negative. Per farlo, però, serve un progetto alternativo e la consapevolezza che sarà necessario uno scontro forte, anche di carattere culturale, nei confronti delle posizioni di Confindustria.
Sul progetto alternativo ho già avuto modo di scrivere anche su FerraraItalia [Qui]. Mi interessa solo richiamare i suoi assi di fondo: un grande Piano di Intervento e Investimento Pubblico diretto in settori fondamentali, a partire dalla sanità e dei beni comuni sociali e naturali per arrivare alla riconversione ecologica dell’economia e ad un intervento strategico sul riassetto e la messa in sicurezza del territorio.Il tutto supportato dal reperimento di risorse in una logica di riduzione delle disuguaglianze e di equità fiscale e accompagnato da una significativa riduzione dell’orario di lavoro e dall’istituzione di un reddito minimo garantito.
Accanto a questo, anche alla luce delle posizioni assunte da Confindustria, occorre naturalmente una vasta mobilitazione, prima di tutto sociale, per affermare questa prospettiva. Anche perché continuiamo a vedere all’opera un governo fragile, diviso al suo interno, incapace di mettere in campo una visione strategica e prigioniero di una logica emergenziale, esposto agli stessi diktat di Confindustria.
Ho ben presente che quello della costruzione di una mobilitazione e di un’alternativa è un tema complicato, che molti si sentono scoraggiati e non vedono il bandolo della matassa da cui poter ripartire. Né mi sento di avere già la risposta confezionata in proposito, anche perché potrebbe non essere utile senza passare per una discussione collettiva.
Nello stesso tempo, penso che ci siano tante energie e realtà, sia a livello nazionale che territoriale, a partire dai movimenti e dalle organizzazioni sociali, che già si muovono in un’ottica di alternativa al Pensiero Unico e alle ricette neoliberiste. Forse allora varrebbe la pena costruire un dibattito e una riflessione a più voci anche su questo punto decisivo. E perché non partire proprio dalla realtà di Ferrara e i suoi problemi?
In copertina: elaborazione grafica di Carlo Tassi
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Corrado Oddi
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