S’è fatto tardi. Cammino da ore.
Finalmente trovo la via deserta. Finalmente posso star solo, coi miei pensieri, le mie fantasie.
Nessuna distrazione, nessun seccatore. Seguo la luce dei lampioni, accompagnato dalle ombre che mi seguono allungandosi e poi sdoppiandosi tutt’attorno.
Così mi ritrovo a camminare sopra le nuvole, concentrato, senza alcun peso apparente. Seguo le tracce dei ricordi, vaghi poi sempre più forti. Socchiudo gli occhi, le immagini m’appaiono come un incanto di colori nel buio.
Ero solo un ragazzo, un eroe senza macchia e tanta paura. Io e la mia musica nelle orecchie…
Era il 1978 e davanti a me solo desideri e sogni. La radiolina suonava uno splendido brano che m’accompagnava da giorni. E proprio in quel momento, quella musica sembrava addolcire la mia quiete serale rendendola come eterna. Nella testa una voce raccontava una triste storia. Non capivo le parole, mi bastava la musica.
E lei mi suggeriva amori struggenti, tramonti avventurosi e luoghi lontani da esplorare. Ma le parole descrivevano ben altro: raccontavano di solitudine, di alcolismo, di male di vivere.
È la magia della musica che ti dice quello che vuoi sentire e t’inganna piacevolmente. Una magia che annulla la distanza tra desiderio e realtà, e dura il tempo di una canzone.
Nel 1978 avevo soltanto quattordici anni e allora andò bene così.
Poi, qualche anno più tardi, la comprensione di quelle parole mi fece pensare che forse Baker Street era la canzone più bella che avessi mai ascoltato.
Strano caso quello di Baker Street. Gerry Rafferty cantava la storia di un alcolizzato e della sua notte perduta tra le vie della città, teatro della sua maledizione. Quella canzone lo rese famoso, fu l’unico vero successo di una lunga carriera di musicista vissuto nell’ombra.
Una canzone immortale che, dopotutto, si rivelò un fatale presagio: Gerry Rafferty morì di solitudine e alcolismo, concludendo la sua vita esattamente come aveva raccontato in Baker Street.
Baker Street (Gerry Rafferty, 1978)
