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Una “manovra shock” è possibile ed auspicabile, soprattutto se si hanno alcuni gioielli di famiglia da cedere, e non ci sono alternative se si vuole percorrere i sentieri di un nuovo sviluppo.
Questa è una frase che negli ultimi mesi la si sente sovente dire e richiamare, non solo nelle prime pagine dei giornali, alla tv, sui social network, ma anche tra la pubblica opinione, nelle corsie dei centri commerciali, sotto gli ombrelloni, quando il maltempo lasciava quel poco spazio al sole nelle spiagge estive del nostro Paese.
Una manovra che dovrebbe essere articolata, dove gli attori che la elaborano e la fanno applicare, a partire del Governo, siano molteplici ed in rete, a partire dai territori, e rivolta là dove sperperi, diseconomie, privilegi e sballi tariffari fanno strage dei corretti comportamenti.
Non è la prima volta che questo quotidiano online ne parla con specifici interventi, proposte, osservazioni e altro, ma la politica è sempre risultata silenziosa, disattenta, rivolta altrove, come se il suo ruolo non fosse nel servire.
Lasciar perdere sarebbe mettere all’angolo la stampa, grande o piccola che sia, locale o nazionale, con editoriali o con interviste ad esperti indipendenti; noi di questa testata non rinunciamo ad un dovere e non reclamiamo nessun diritto.
Se il focus che sottolineiamo risulta troppo “domestico”, è solo un fatto di vicinanza, ma anche altrove, più o meno lontano, detti fenomeni si presentano e sono evidenti. Utile quindi un ulteriore richiamo all’attenzione, che non vuol essere un puntare la visione solo a noi, in questo lembo tribolato di terre emiliane.
Ecco l’elenco: troppi piccoli Comuni; un eccesso di aziende municipalizzate, anzi di micro aziende; disordine nei bilanci, quasi mai convergenti tra loro nelle scelte, nei costi, nelle priorità ed altro; assessorati con vuote competenze e spezzettati nelle funzioni con altri enti paralleli; partecipazioni azionarie, quasi inesistenti per la governance, un po’ ovunque;, immobili in continuo disuso e ormai decadenti; decisioni dei soci più per lo status quo che non per il bene delle imprese; troppi ed inadeguati bonus ai vertici, appiattimento alla base; non pochi esuberi per clientele; diversità tariffarie; costi impropri e dirigenti oltre il limite del necessario.
C’è chi ha fatto dei conti, anche dettagliati e ben documentabili, ed è arrivato alla somma di non poche decine di milioni di euro, se poi si provvede a parziali dismissioni (anche senza perderne il controllo aziendale) la cifra va oltre la decade delle decine di risorse finanziarie.
Al riguardo qualcuno ha provveduto ad aprire i soliti cassetti nei palazzi, dal Castello, a quello ducale, da più municipi allocati tra le reti dei Comuni alle sedi di holding, capigruppo, aziende pubbliche e i loro organigrammi, ma tutto è rimasto inutile, e la conservazione l’unica novità della politica domestica di questo lembo distante dalla via Emilia.
Se a ciò si dovessero aggiungere le voci della spending review, un ordine alla macchina della Pubblica amministrazione, ad un politica fiscale, diretta ed indiretta, adeguata ad un Paese civile e moderno, a non più contributi a pioggia senza finalità e riscontri, ad uno Stato più leggero, Regioni comprese, ad una politica-partitica meno invasiva e poco trasparente, la cifra diverrebbe una montagna di soldi e sicuramente il Paese ce la farebbe ad uscire dal tunnel della sua profonda crisi, Europa compresa.
E non basta se si cominciassero ad usare bene i fondi strutturali europei 2014-2020 dopo aver non utilizzato ben il 40% del periodo precedente.
Tre linee della manovra che dovrebbero viaggiare insieme, e se anche solo una delle tre non galoppasse ai giusti ritmi della corsa tutto risulterebbe come prima, cioè ancora la crisi che continua, reddito in caduta, occupazione che annaspa, giovani senza lavoro, forti tensioni sociali e la coesione una chimera.
Non vorremo che fosse così. Ma ad oggi non è cambiato nulla, i segnali che provengono sono quasi inconsistenti e quel passare da cento a mille giorni è la riprova delle troppe difficoltà e delle solite resistenze.
La visione domestica sembra ancora addormentata e presa a stare solo in sella, ci sono le elezioni amministrative in Emilia Romagna, i Comuni che hanno appena votato pensano a sistemare gli organigrammi, i partiti e le loro segreterie quasi il vuoto e la nuova generazione che aspetta che il vento soffi nella giusta direzione.
Nel ‘68 e nel ‘69 gli studenti pensarono che era giunto il tempo di alzare la voce, scendendo in piazza per una giusta contestazione. Ora i giovani non li vediamo, forse sono rintanati tra le mura dei genitori, forse senza stimoli, forse rinchiusi nelle loro brevi nuove famiglie tra precariato e bolletta da pagare.
Forse serve per loro una risposta forte. Serve una nuova politica, che quel cambiare verso scardini i troppi mandarini, che il lavoro sia dignitoso, che i ricchissimi abbiano almeno un po’ di meno e che la giustizia sociale non sia solo rivolta ai dieci giusti della Bibbia.
Anche per ricordare: negli anni ’80 nel ferrarese, dopo la crisi delle riconversioni industriali, arrivarono investimenti pubblici per oltre 1.500 miliardi di lire e con un buon effetto moltiplicatore.
Oggi, sempre per un’altra profonda crisi partita nel 2008 e non ancora finita, servono investimenti pubblici per almeno 400 milioni di euro, in cinque anni ed in aggiunta alle odierne risorse, ed un effetto moltiplicatore di tre/quattro volte per altri due anni in aggiunta; un sogno, no, una volontà della politica.
Lo shock, i nostri gioielli, una politica, e correre, correre e nuovamente correre.

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Enzo Barboni



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