CALENDARIO DELL’AVVENTO
‘E’ una bella notte per venire fuori, agnellino mio’
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[Pubblicato il 24 dicembre 2014]
Siamo arrivati all’ultima data di questo calendario dell’Avvento. Speriamo di avervi incuriosito, di avervi intrattenuto e divertito: spesso l’importante non è la mèta, ma l’esperienza del viaggio e con chi lo si condivide.
Quale miglior conclusione se non il ritorno al principio? Il ritorno al racconto di Miriam/Maria, ebrea di Galilea. Anche lei è giunta alla fine del viaggio da Nazaret a Betlemme, dove Iosef deve farsi registrare per il censimento ordinato dai dominatori romani. Per lei questa notte si compiono anche i giorni del parto: alla luce della stella cometa che ha accompagnato la sua gravidanza, in compagnia dell’asina che l’ha portata sulla groppa e di un bue che se ne sta tranquillo nella sua stalla, darà alla luce Ieshu, suo figlio.
«Sudavo. Appoggiata di schiena mi tenevo il pancione con due mani per aiutare le mosse del bambino. L’incoraggiavo a bassa voce, col respiro corto. Lo chiamavo. Le bestie alle spalle mi davano forza. Le gambe mi facevano male per la posizione. Mi inginocchiai per farle riposare. “Affacciati bimbo mio, vienimi incontro, mamma tua è pronta a prenderti al volo appena spunta la tua testolina.” I muscoli del ventre andavano dietro al respiro, una contrazione e un rilassamento, spinta, rincorsa, spinta. Quando lo strappo era più forte mi mordevo il labbro per non far scappare il grido. Iosef era di sicuro davanti alla porta, di guardia.
Lontano i pastori chiamavano qualche pecora persa. “È una bella notte per venire fuori, agnellino mio, notte limpida in alto e asciutta in terra. Il viaggio è finito e tu hai aspettato questo arrivo per nascere. Sei un bravo bambino, sai aspettare. Ora nasci, che tuo padre ti aspetta. Si chiama Iosef, quando entra gli diciamo: caro Iosef io sono Ieshu tuo figlio. Vedrai che sorpresa, che faccia farà.”
Parlavo e soffiavo, a un colpo più forte, una spallata di Ieshu, mi alzai di nuovo in piedi appoggiandomi alla mangiatoia. Le bestie ruminavano tranquille, c’era pace. Iosef aveva scelto un buon posto per noi. “Bel colpo Ieshu, un altro così e sei fuori, ecco ti aiuto, spingiamo insieme, le mani sono pronte ad accoglierti, via?” Via, è uscita la spalla, l’ho toccata, poi è rientrata, ma subito dopo di slancio Ieshu ha messo fuori la testa, l’ho avuta tra le mani, mi sono commossa, mi è scappato un singhiozzo e sul singhiozzo è venuto fuori tutto e l’ho afferrato al volo. L’ho alzato per i piedi per liberare i polmoni e fare spazio al primo vento che forza l’ingresso chiuso del respiro. Ieshu ha inghiottito aria senza piangere.
[…]
Fuori c’è il mondo, i padri, le leggi, gli eserciti, i registri in cui iscrivere il tuo nome, la circoncisione che ti darà l’appartenenza a un popolo. Fuori c’è odore di vino. Fuori c’è l’accampamento degli uomini. Qui dentro siamo solo noi, un calore di bestie ci avvolge e noi siamo al riparo dal mondo fino all’alba. Poi entreranno e tu non sarai più mio.
Ma finché dura la notte, finché la luce di una stella vagante è a picco su di noi, noi siamo i soli al mondo. Possiamo fare a meno di loro, anche di tuo padre Iosef, che è il migliore degli uomini. Pensa: noi usciamo di qui all’alba del giorno e fuori non esiste più nessuno, né città, né esseri umani. Pensa: noi siamo i soli al mondo. Che felicità sarebbe, nessun obbligo all’infuori di vivere. Finché dura la notte è così”.
Così Erri De Luca scrive del maggior prodigio della notte della natività: la perizia di una ragazza madre, la “sapienza di parto” di Miriam/Maria che si guadagna la ricompensa di poche ore di solitudine con suo figlio Ieshu, finché durerà la notte.
Canto di Miriam/Maria
Di chi è questo figlio perfetto,
chiederanno frugandolo in viso,
di chi è questo seme sospetto,
la paternità del tuo sorriso?
È solamente mio, è solamente mio,
di nessun’altra carne, è solamente mio.
È solamente mio, è solamente mio,
finché dura la notte è solamente mio
Chi è questo figlio cometa?
Chi è questo mio clandestino?
Spillato da fonte segreta,
venuto al travaso del vino?
È Solamente mio, è Solamente mio,
il suo nome stanotte è Solamente mio.
È Solamente mio, è Solamente mio,
domani avrà altro nome, adesso è Solamente
Mio.
Erri De Luca, “In nome della madre” (Feltrinelli 2006)

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Federica Pezzoli
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani