CALENDARIO DELL’AVVENTO
Canto di Natale di uno spilorcio pentito
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Ebenezer Scrooge non ama le persone.
Avaro, non parsimonioso; gretto, non riservato; gelido, non controllato. Semplicemente scrooge. Talmente caratterizzato da avere ispirato il celeberrimo personaggio di Zio Paperone – Uncle Scrooge il suo nome originale – e la parodia Disney che prende il titolo del romanzo, oltre a un vasto numero di trasposizioni cinematografiche; divenuto antonomasia che indica una persona tirchia, taccagna, arida di animo e comportamento (dal dizionario Merriam-Webster: “Scrooge or scrooge: a selfish and unfriendly person who is not willing to spend or give away money”).
“Caldo e freddo contavano poco per Scrooge. Non vi era caldo che lo scaldasse, né tempo d’inverno che lo facesse intirizzire. Non vi era raffica di vento più pungente di lui, né bufera di neve più determinata nel suo intento, né scroscio di pioggia più sordo alle suppliche. Con lui il maltempo non sapeva come fare a spuntarla. Per quanto violenti, pioggia, neve, grandine, nevischio potevano vantare la propria superiorità rispetto a un unico punto. Spesso manifestavano la loro generosità mentre Scrooge non lo faceva mai.”
Scrooge, ricchissimo finanziere nella Londra ottocentesca non ha tempo da perdere con i rapporti umani, né con il Natale. Dopo lo sgarbato, ennesimo rifiuto di fronte a una gentilezza e una richiesta di aiuto, Scrooge riceve una Epifania anticipata, sotto forma di tre spiriti che gli fanno visita.
Prima lo spirito del Natale passato, sotto forma di fantasma, che ricorda al vecchio episodi felici di gioventù da lui disprezzati – il vecchio e bonario capo Fezziwig; il leale socio Marley, ora morente; la sfortunata fidanzata Bella che lui abbandona. E il rimorso che lo pervade, una volta messo di fronte alla propria vita egoista, sprecata senza mai un’azione di bontà, pietà o altruismo.
Gli fa visita poi lo spirito del Natale presente, che gli mostra una umanità dolente, alle prese con difficoltà economiche e privazioni e che tuttavia trova l’occasione e il coraggio di sorridere e celebrare la festa religiosa – il nipote Fred e la sua famiglia, l’umile impiegato Bob Scratchit, minatori, marinai. Il colpo di grazia gli viene inferto dallo spirito del Natale futuro, che mostra a Scrooge nient’altro che il suo imminente futuro: morto, deriso da tutti per la sua tirchieria e la sua bassezza, preda degli sciacalli che si avventano sul suo patrimonio e felici di essersene liberati. La mattina dopo è Natale, ma per Scrooge è arrivata l’Epifania: getta la maschera del capitalista ed entra, a pieno titolo, nel mondo dei buoni, un cattivo che diventa buono, un self-made man finalmente disposto a condividere la propria fortuna, riparando ai torti fatti e offrendo aiuto concreto a chi ne ha bisogno.
«Spirito!», gridò, aggrappandosi alla sua veste, «ascoltatemi! Non sono più l’uomo che ero. Non sarà l’uomo che immancabilmente sarei stato senza il nostro incontro. Perché mostrarmi questo, se sono al di là della speranza?»
Nel suo “Canto di Natale” (“A Christmas Carol: a Goblin Story of Some Bells that Rang an Old Year Out and a New Year In”), pubblicato per la prima volta nel 1843, Charles Dickens getta il lettore in una storia edificante, un racconto fantastico dal sapore gotico, dalle atmosfere cupe e fuligginose, che pesca a piene mani dal realismo di cui lo scrittore è voce forte nella metà Ottocento di quella Inghilterra lacerata da disparità sociali, povertà, analfabetismo, sfruttamento minorile, Poverty Law. Raccontandole attraverso ritratti picareschi, quasi caricaturali nella loro forza espressiva magnificamente incanalata tra poesia mascherata da prosa e ‘morality’ vittoriano, strutturato in cinque atti, con tanto di sipario tra una apparizione di spirito e l’altra.
E magnificamente restituite attraverso i luoghi e i personaggi che la animano, tra protagonisti della classe operaia e del popolo che anima la Londra di Coketown, bambini laceri ai piedi dello spirito del Natale presente, Miseria e Ignoranza – le due condizioni a cui Scrooge e tutti quelli come lui condannano, oggi come allora, chi non fa parte della classe dominante.

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Giorgia Pizzirani
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