L’ansiogena rincorsa all’ultima novità sull’argomento dell’anno non dà segni di allentamento, e chi non si è mosso sin da gennaio a studiarlo e approfondirlo non può sperare proprio ora di recuperare con semplicità il bandolo della matassa.
La caccia all’untore prosegue, tocca adesso alle giovani generazioni. Ce ne dava notizia l’Ansa, il 20 agosto, con un titolo e un articolo certi del contenuto: “Coronavirus, i bambini sono diffusori silenziosi”. L’agenzia di stampa ha tuttavia ignorato il contesto in cui si inserisce lo studio scientifico, dimenticando di segnalare diversi elementi imprescindibili per la sua corretta comprensione. Per cominciare, si tratta di un articolo in attesa di pubblicazione e ancora suscettibile di modifiche prima della versione finale. Venendo alla ricerca condotta, essenziale risulta il campione stabilito e testato: 192 individui fino ai 22 anni di età, con sospetta infezione [vedi qui] da Sars–Cov-2, che si sono presentati al pronto soccorso, o che sono stati ricoverati per sospetta o confermata infezione da Sars–Cov-2, oppure per la presenza della Mis–C, la sindrome infiammatoria multisistemica pediatrica, al momento ritenuta associata e non causata dal germe menzionato. La metodologia principale usata per indagare la positività al virus è stata quella del tampone oro-nasofaringeo, analizzato tramite la tecnica della Real Time Polymerase Chain Reaction – Real Time Pcr – , utilizzata per quantificare le espressioni geniche, esaminare le variazioni riscontrate e misurare la quantità di sequenze degli acidi nucleici in determinati campioni. L’inventore della Pcr, il Nobel Kary Mullis, sottolineava tuttavia come la propria creazione permettesse di scovare sequenze genetiche di virus, ma non i virus stessi. I limiti dei tamponi nelle analisi diagnostiche, tra falsi positivi e falsi negativi, sono ampiamente conosciuti, così come la possibilità che presentino contaminazioni e che non vengano effettuati correttamente [vedi qui], divenendo un rischio per la salute pubblica e individuale. I risultati dello studio, circoscritti dai paletti che abbiamo dovuto evidenziare, fanno emergere pertanto una ipotetica carica virale più alta, nelle vie respiratorie dei soggetti attenzionati, rispetto ai pazienti adulti ricoverati nelle terapie intensive. Il che non equivale a una maggiore contagiosità, nonostante la notizia italiana sia quasi interamente concentrata su questo aspetto. Per di più, dalla lettura si rischia di cadere nel tranello che assimila il microbo a una malattia: dire che le bambine e i bambini non sono immuni dal virus, nel senso che possono ospitarlo, non significa dire automaticamente che possano esserne attaccati tanto da veder insorgere una patologia.
Scoperta una nuova fonte di contagio? No. Il paper prossimo alla pubblicazione non aggiunge nulla alle conoscenze attuali sulla diffusione del Sars–Cov-2, tantomeno sulla vulnerabilità degli individui più giovani alla Covid-19.
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Ivan Fiorillo
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