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Ci voleva forse il Covid per rendersi conto fino in fondo quanto le biblioteche siano realtà trascurate, forse addirittura sconosciute alla classe politica italiana.
Non è un caso che nella serie dei dpcm che dettano via via le disposizioni per zone gialle, arancio e rosse, le biblioteche non sono mai chiamate con il loro nome, ma messe in fondo alla lista, dopo i musei, tra “gli altri istituti di cultura di cui all’articolo…”.
Da dove viene questa incultura, questa ignoranza, questa indifferenza verso le biblioteche? Probabilmente i nostri politici (ed ahimè, su questo risulta difficile distinguere la destra dalla sinistra) non frequentano punto qualcuna delle migliaia di biblioteche sparse per tutto il territorio nazionale. Non hanno cioè nemmeno un’idea di che patrimonio rappresentino.

A volte anche i numeri sono importanti. Il sito dell’ICCU (Istituto Centrale per il Catalogo Unico) [Vedi qui]  riporta l’anagrafe ufficiale delle biblioteche italiane: 11.920 le biblioteche censite (ma il totale generale supera le 18.000 unità), 6.246 sono le biblioteche di enti territoriali (quelle che chiamiamo biblioteche di pubblica lettura) e oltre 1.000 quelle universitarie.
La maggioranza dei Comuni italiani dispone di una o più biblioteche pubbliche. Certo, più al Nord e al Centro rispetto al Sud Italia, ma a guardar bene la presenza delle biblioteche ha un carattere capillare. Una rete diffusa e interconnessa che negli ultimi cinquant’anni non ha smesso di crescere. Credo di più delle stazioni dei Carabinieri che ultimamente hanno pensato (male) di chiudere in tante realtà periferiche.

Solo le scuole sono più numerose delle biblioteche. E, sia detto per inciso, le scuole hanno storicamente condiviso con le biblioteche la medesima disattenzione e indifferenza da parte dei nostri governanti.
Rimane il fatto – per questo i numeri sono importanti – che le biblioteche rappresentano un presidio culturale davvero diffuso, nelle metropoli come nelle città e nei piccoli borghi, nei centri storici come nelle periferie urbane e nei piccoli comuni montani.

Cosa fare di questo grande patrimonio? Come utilizzarlo al meglio? Forse occorrerebbe capire meglio cosa già sono in tanti casi e cosa dovrebbero essere, a cosa e a chi dovrebbero servire  le biblioteche. Cominciando dal nome. Alcuni (io non sono tra questi) suggeriscono un nome ‘aggiornato’ ai tempi, di chiamarle ‘mediateche’, visto che i supporti su cui viaggiano informazioni e cultura si sono moltiplicati. Occorre però scavare più a fondo, raggiungere ed esprimere la vera anima delle biblioteche. Maria Stella Rasetti, direttrice Biblioteche e Archivi della città di Pistoia (sul quotidiano il manifesto dello scorso 8 novembre) chiama le biblioteche “Cittadelle della democrazia”. E scrive della sua realtà: “in una biblioteca del genere (e per fortuna non solo in questa) il «miracolo» va oltre il tradizionale ambito della lettura, per estendersi a uno stare insieme che crea comunità: una comunità che non fonda i suoi legami sulla comunanza delle radici, ma che trova il senso di sé nel voler condividere il futuro. La biblioteca è per definizione luogo del meticciato, della condivisione, della «conversazione», per usare una espressione cara a David Lankes, professore di biblioteconomia americano, che ha sviluppato una specifica teoria sulle biblioteche innovative”.
Non tutte, ma molte delle biblioteche pubbliche italiane hanno ormai fatto proprio questo DNA. Tranne alcune a questo preciso compito preposte, le biblioteche non sono un luogo di conservazione, ma un luogo di incontro (una agora) e un terminale assistito dove si cercano e si scambiano informazioni: Per le biblioteche – per quello che sono e per quello che potrebbero essere – ricordo una bella definizione di Everardo Minardi: “agenzie della democrazia informativa”.

Se è vero che la pandemia non può sospendere l’esercizio della democrazia, la chiusura delle biblioteche pubbliche che i vari dpcm stanno generalmente imponendo, risulta un fatto grave.  Le biblioteche non producono Pil, ma garantiscono l’esercizio della democrazia. Per questa ragione, dal mondo dei bibliotecari – loro sì conoscono la natura e le potenzialità dei presidi bibliotecari – si sono levate da più parti contestazioni e proteste.

La stessa presidente dell’AIB (Associazione Nazionale Biblioteche) Rosa Maiello così scrive il 6 di novembre ai ministri della Repubblica: “Se le biblioteche sono risultate essere – come noi crediamo di poter affermare – tra i luoghi pubblici più sicuri e raccomandabili dove recarsi, potremmo capire l’utilità di una indicazione prudenziale a non consentire il servizio di consultazione in sede, o a effettuare una valutazione caso per caso secondo le caratteristiche della sede e l’entità prevista dell’affluenza. Ma non comprendiamo perché impedire anche il prestito dei volumi, gestito con tutte le dovute cautele a tutela della salute degli operatori e del pubblico e ferma l’ovvia condizione che la biblioteca sia in grado di assicurarle. In questo modo si privano non solo studenti e ricercatori delle fonti necessari per progredire nei loro studi (perché le biblioteche sono strumenti essenziali per l’effettività del diritto allo studio e del diritto alla ricerca), ma tutti i cittadini e in particolare quelli socialmente ed economicamente più svantaggiati di un servizio essenziale, e il tutto proprio in una delle fasi più dure e difficili della loro esistenza.”

Ma tant’è, oggi dobbiamo registrare che, da Aosta a Ragusa, le biblioteche hanno dovuto chiudere le porte al pubblico. Rimane allora da usare bene fantasia e creatività (e tanti bibliotecari e lettori sono già impegnati in questo senso) e sviluppare servizi alternativi per non lasciare i cittadini utenti privi del servizio. Leggo di tante iniziative in tante regioni e città d’Italia: non solo ‘libri su prenotazione’, ma anche ‘libri d’asporto’, ‘libri nel cortile’, ‘libri a domicilio’ e altre virtuose invenzioni.
Se l’utente non va (non può andare) in biblioteca, la biblioteca può e deve andare a casa dell’utente. Secondo il celebre adagio: “ad ogni lettore il suo libro, ad ogni libro il suo lettore”.

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it