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“Così facilmente s’acquisterebbe il vivere, se il desio di accumulare denari non impoverisse gli altri.” (Utopia, Tommaso Moro)

Beni comuni e bene comune: beni comuni come risorse naturali e patrimoni immateriali inalienabili della collettività umana, bene comune come fine della politica e della società: di questo si è parlato lunedì pomeriggio alla Sala Agnelli della biblioteca Ariostea con Barbara Diolaiti nel primo incontro del 2016 del ciclo “Viaggio nella comunità dei saperi”.
Ragionare dei e sui beni comuni, ha messo subito in chiaro Diolaiti, “dovrebbe interessare tutti i cittadini”. Prima di tutto perché quella della comunità e della collettività e la dimensione con-naturata (appunto) a ciascun essere umano, secondo perché significa interessarsi della “qualità della vita, nostra e di ogni altro essere umano nel mondo” e, da ultimo ma non meno importante, perché il tema riguarda “la cessione di sovranità” da parte dei singoli cittadini davanti agli Stati, ma anche da parte di questi ultimi davanti alle grandi multinazionali. Insomma “difendere i beni comuni significa difendere noi stessi” sottolinea Diolaiti, e come darle torto.

È sotto gli occhi di tutti quanto, nella comunità nella quale ognuno di noi vive ogni giorno, siano aumentate le disuguaglianze, le tensioni individualistiche e (di conseguenza mi verrebbe da dire) le solitudini. Credere ancora nella possibilità della crescita infinita in un pianeta in cui le risorse sono finite è come minimo ormai controproducente, eppure ci ostiniamo a ragionare soltanto sul ‘qui e ora’, in un eterno presente, rinnegando il passato e rinunciando a progettare un altro futuro possibile, più giusto ed equilibrato.
Sì perché il modello economico, sociale e culturale, non è sempre stato quello della scelta fra pubblico e privato, fra Stato e mercato: un dualismo che si crea in epoca moderna, spazzando via tutte le consuetudini comunitarie dell’Antichità e del Medioevo. E perché un altro futuro è possibile, o almeno sempre più persone in diverse parti del mondo credono che sia possibile: lo dimostrano le due Costituzioni di Bolivia ed Ecuador, che tutelano esplicitamente nei propri articoli i beni comuni, e la stagione dei referendum per l’acqua, per venire a realtà più vicine a noi.

Non è una questione di scelta fra pubblico e privato, è una questione di accesso uguale e condiviso a beni e diritti essenziali per una vita dignitosa: l’acqua, l’aria, la terra, ma anche il sapere, la cultura, il paesaggio e la salute. Si tratta di decidere se vogliamo davvero continuare a costruire la nostra società sull’individualismo e la dimensione quantitativa o sul mutualismo e la dimensione qualitativa. Dovremmo finalmente uscire dal paradigma pubblico-privato e “restituire i beni comuni alla comunità” ha affermato Diolaiti citando il giurista Ugo Mattei, ma soprattutto dobbiamo pensare a “nuove forme di gestione partecipata da parte dei cittadini”, che da parte loro devono essere in grado di riconoscerli e avere la volontà di impegnarsi a difenderli. Scrive Mattei sul suo “Beni comuni. Un manifesto”: “Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea o la sanità, o cerca di privatizzare il servizio idrico integrato (cioè l’acqua potabile) o l’università, esso espropria la comunità (ogni suo singolo membro prò quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un’altra opera pubblica”. E il peggio, come spiega Diolaiti, è che “poi non si può più tornare indietro”.

Purtroppo però – e questa è una riflessione che nell’incontro di lunedì mi pare sia rimasta solo in nuce – questo cambiamento di paradigma richiede sostenibilità e quindi sobrietà e responsabilità, il che significa sacrifici rispetto all’attuale tenore di vita, soprattutto da parte nostra, il mondo cosiddetto ‘sviluppato’.
Citando nuovamente Mattei: “Moderazione e giusto mezzo sono idee intimamente connesse alla questione della giusta distribuzione delle risorse, un tema che sottopone a critica radicale proprio l’ideologia della crescita e l’insieme degli apparati coercitivi e culturali che la sostengono. Solo con la giustizia nell’accesso alle risorse potrà esserci futuro. Una buona politica deve mettere al centro la distribuzione, mentre la questione della produzione (che cosa produrre e come) deve essere resa funzionale proprio al raggiungimento di una tale società giusta e fondata su moderazione, sobrietà, senso del limite e responsabilità”. In altre parole la battaglia sui e per i beni comuni è forse la base per un pensiero politico e istituzionale nuovo e radicalmente alternativo fondato sulla qualità dei rapporti e non sulla quantità dell’accumulo. Il dubbio con cui sono uscita lunedì dalla biblioteca Ariostea – per inciso uno di quei beni comuni ai quali prestare attenzione – è non solo e non tanto se siamo pronti a questa alternativa, ma soprattutto se la maggioranza di noi è interessata.

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Federica Pezzoli



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