Abbiamo recentemente recensito la Betty di Simenon [vedi], prima dell’omonimo romanzo di Roberto Cotroneo. Avevo acquistato il libricino dell’autore francese all’aeroporto romano Leonardo da Vinci. Conoscendo già l’origine credevo, dunque,di essere pronta al nuovo libro di un autore che ho sempre seguito e ammirato. Mi piace come scrive Roberto (anche se lui non vuole mai che si dica che un libro “è bello”…), la forza e l’energia che getta fulmineo alle pagine accarezzate dal vento e dalla voglia di svelare un mondo interiore complesso ma ricco ed estremamente sensibile. Una vera e propria calamita per me, per il mio modo di essere, di leggere, di scrivere e di vivere in completa empatia con i personaggi di un romanzo che, di solito, fatico a salutare alla fine di ogni storia. Se mi sono piaciuti, mi congedo da loro con estrema difficoltà, li tengo per mano fino all’ultima riga, magari rileggo le ultime pagine per salutarli ancora. E quando chiudo il libro sono sempre un po’ triste. Prima che uscisse in libreria, avevo aspettato trepidante il libro di Cotroneo.
Sinceramente, la Betty di Simenon mi aveva lasciato un po’ di amaro in bocca, questa volta mi ero congedata quasi volentieri da un personaggio difficile, criptico, scomodo e per certi versi tetro e un po’ angosciante. Volevo, allora, vedere cosa sarebbe rimasto di lei nel nuovo romanzo di questo noto scrittore piemontese. Direi, oltre al nome, molte caratteristiche principali della protagonista simenoniana, nella sua personale e infinita tragedia di vita, nelle sue profonde cicatrici e nel suo destino ciecamente ferito. Ma qui c’è molto di più. Quella giovane e bella donna misteriosa che scompare improvvisamente a Porquerolles, l’isola dove il vecchio e malato Simenon passa qualche settimana di vacanza, ci fa entrare, ancora una volta, nel mondo dei perdenti, delle esistenze segnate, sofferenti e buie, nell’abisso dell’animo umano, nella disperazione e quasi nella follia, ma lo fa come se fossimo in un quadro monocromatico o in una fotografia. Mi colpiscono, infatti, i frequenti richiami alla fotografia, che ci proiettano nel suo mondo. Immagini in bianco e nero di Betty scattate dal fotografo del paese, Marc, perché Simenon vuole il racconto di un’anima, e le anime non sono a colori, ma sono fatte di sfumature su una sola tonalità, bianca, nera o grigia. Perché Simenon ricorda che la gente pensa che le fotografie aggiungano qualcosa a ciò che vediamo, perché le prime foto scattate sono quelle prese sulla piazza dell’isola, dove le rughe in bianco e nero di uomini anziani, uomini seduti, sembrano le linee di carte geografiche, ove le tonalità di grigio sono sfumature di vita. Qui scrittore e scrittura sono soci, uno di minoranza e uno di maggioranza, uno scrittore anziano che ritrova l’intensità. L’escamotage iniziale del manoscritto ritrovato fa immedesimare ancora di più lettore, scrittore, protagonisti, tutto si mescola, tutti sono tutti, nessuno salva nessuno, tutto si confonde. Perché lo scrittore-personaggio-protagonista, alla fine, non ha “più la forza di aggiungere una sola parola a questo scritto”… come se si portasse “addosso le ferite di tutte le donne non comprese”. Perché, alla fine, “quella che chiamiamo vita non è altro che un collage di ricordi di qualcun altro. Con la morte, quel collage si disfa e ci ritroviamo con frammenti slegati, casuali, cocci o, se si vuole, istantanee”. Quelle fotografie di Marc che l’improvvisato Maigret, trovatosi suo malgrado coinvolto nella scomparsa della bella Betty, non vuole più vedere, perché “tutto è là, nel dolore degli occhi grigi di quella donna. E, conclude… nelle ferite di tutte le donne che non sono stato capace di capire e di sentire. Tutto è in quegli occhi grigi di un mondo indifeso che non sono riuscito a salvare”. La fotografia, il bianco e nero, il grigio, ossia la tonalità delle anime perse.
Roberto Cotroneo, “Betty”, Bompiani, 2013, pp. 188
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Simonetta Sandri
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