Barba e capelli, sofferenza e comprensione: terza visita al Castello dell’ospedale di Cona
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La improvvisa proliferazione dei bulbi piliferi nelle gote e nelle teste degli italiani non è probabilmente solo dovuta alla moda ma diventa un segno di riconoscimento che la politica ha entusiasticamente adottato. Aver barba possibilmente incolta è segno di auctoritas e distinzione così come, almeno fino all’anno scorso, l’uso smodato degli sciarponi al collo a cui è rimasto fedele unicamente Brunetta. Più complessa la postazione della cresta in testa a cui si abbandonano con ebbrezza straordinaria i calciatori e i divi di mezza tacca e a cui s’ispirano, tra gli altri, portantini e infermieri. Il vento della libertà vestiaria scuote dunque le severe stanze del Castello ovvero dell’ospedale Sant’Anna di Cona che sembra riservarmi sempre più sorprese che mi spiazzano ma che ancora una volta rendono sopportabile il luogo destinato ad alleviare il dolore. E’ stata l’urgenza a portarmi al Pronto soccorso a causa di un male davvero atroce che mi lancinava il palato dove stava crescendo una bolla enorme. Approdato al Triage – nome assai suggestivo che ti assegna un codice attraverso il quale sarai chiamato e non con il tuo cognome per rispettare la “praivasy” – vedo scritto con pennarello e a caratteri enormi una freccia e un’ indicazione: “adulti” . Penso dunque che i bambini abbiano libero accesso. Ma dove?
Vengo accolto dall’addetto provvisto da rigorosa barba incolta che mi chiede tesserino sanitario e sintomi del male. Un po’ balbetto. Ancora risento della mia immedesimazione con l’agrimensore K.[vedi puntata precedente] e infine mi vien consegnato il verdetto: codice verde! Dal male che provavo mi sarei aspettato più generosità nel definire l’urgenza ma la barbetta con un sorriso paterno (avrebbe potuto essere mio pronipote) commenta: “ poi perché sono stato buono!”. Il che significa che generosamente mi aveva evitato di essere cacciato nel codice bianco, praticamente l’infima postazione dove sono catalogati mali, sembra, inventati dal paziente. Così entro nelle sale d’attesa. Tutta una cromìa di verde il colore che domina e che fa grazioso contrasto con le divise gialle degli addetti e col rosso fuoco delle t-shirt degli infermieri.
Un lamento diffuso e contenuto quasi un sospiro proviene dagli occupanti le barelle e le sedie del luogo. L’antica consuetudine con Lui, Dante, sommo poeta, mi riporta alla mente questi versi: “Ora incomincian le dolenti note/a farmisi sentire¸ or son venuto/ là dove molto pianto mi percuote”. Non era un lamento reale ma un’atmosfera impregnata di una sofferenza nascosta, un dolore contenuto e paziente. Infine un’allegra ragazza con la maglietta rosso acceso chiama il mio numero e m’introduce dal medico, una deliziosa giovane che mi affascina ulteriormente perché ha le unghie laccate in giallo limone. Improvvisamente mi ritorna la contentezza che questa maledetta bolla m’aveva bloccato.
Nel pomeriggio, invitato dall’amico Mauro Presini collaboratore di questo giornale, ero andato a chiacchierare con due classi di bimbi: una di terza e una di quarta elementare. A parlare di segreti che mi aveva confidato la mia cagnetta Lilla e che parlavano di maghi che avevano una bacchetta magica chiamata arte e che rendevano eterno ciò che toccavano: questi maghi potenti si chiamano Omero, Dante Michelangelo e per non farci mancare niente per dessert abbiamo commentato anche le figure fatte di frutta fiori e verdure di Arcimboldo. Quando ripenso all’innocenza di quei visi, all’entusiasmo che mettevano nel porre le domande, un che di dolce rende meno amara la costatazione dello stato presente funestato da mostri come Genny ‘a carogna o “Gastone”, il romanista chiuso nel suo covo nazista fino agli intoccabili raggiunti da condanne si chiamino Scajola o Greganti. Questi bambinetti meravigliosi che sgranano gli occhi a sentire le imprese di Achille o a vedere il David di Michelangelo e che per ringraziarmi vogliono posare un bacio sulla pelata del Gianni, narratore di magie.
Una contentezza che fa brillare di luce nuova lo splendido giallo limone delle unghie della dottoressa. E nemmeno l’invito a tornare il giorno dopo per una visita più completa mi fa diminuire la fiducia nel suo potere taumaturgico. I miei occhi assumono l’espressione tipica della mia Lilla quando vuole il cibo e commuovono l’infermiera fasciata di maglietta rossa. Così mi si fissa un appuntamento con lo specialista e trionfalmente il mio cognome viene declamato ad alta voce invece del numero. Altro che “praivasy”! Così si agisce: non sono più un nome ma un cognome: V. Il resto è solo dolore acutissimo. La bolla viene strizzata, sondata, svuotata senza anestesia. Capisco cosa possano essere le pene narrate nell’Inferno dantesco. Eppure davanti a me ho la pazienza e l’incoraggiamento fatti persona. Dolcissima la dottoressa capisce, incoraggia, partecipa e, alla fine, il dolore lentamente svanisce e esco dal verde Pronto soccorso grato di un aiuto che rende il Castello finalmente una Casa. Dove si può soffrire ma dove trovi aiuto e umana comprensione.
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Gianni Venturi
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