L’ANALISI
Banca d’Italia non è dello Stato ma è in mano ai privati che dovrebbe controllare
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”I soldi della Banca d’Italia sono soldi degli italiani”, ha replicato con sufficienza il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti (ospite qualche giorno fa a La7) a Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, che una volta tanto aveva fatto un’affermazione condivisibile, chiedendo che il buco delle quattro banche salvate dal governo non fosse ripianato con i soldi dei risparmiatori e neppure con quelli dello Stato, ma con denari di Bankitalia, che male ha svolto il proprio ruolo di controllore. Ma l’obiezione è infondata: l’affermazione di Zanetti (deputato di Scelta civica) è un enorme sciocchezza! I soldi della Banca d’Italia sono soldi degli azionisti. E lo Stato ha quote per poco più del 5% complessivo. Il resto è nelle mani di privati. Ma al rilievo dell’esponente del governo nessuno ha controbattuto; neppure la Meloni e nemmeno il conduttore Gianluigi Paragone lo ha corretto, pur trattandosi di un autorevole giornalista che si presume esperto della materia.
Gli equivoci che circolano su questo tema pongono la necessità ribadire una verità che evidentemente non scontata come si potrebbe immaginare: la Banca d’Italia non è una banca pubblica poiché non appartiene allo Stato né ad altri enti pubblici, ma è un istituto di credito i cui proprietari sono soggetti privati. Il principale azionista è Banca Intesa con il 30,3% delle quote, poi Unicredit 22,1%, Assicurazioni Generali 6,3%, Cassa di Risparmio di Bologna 6,2% (pure confluita in Intesa)… Lo Stato partecipa al capitale con il misero 5% dell’Inps e con una minuscola quota di proprietà di Inail. E fra i piccoli azionisti c’è persino Carife!
Concretamente, questa situazione dà luogo a due effetti pericolosi.
Innanzitutto il ruolo di controllati e controllori viene di fatto a sovrapporsi e coincidere, perché Banca d’Italia che è l’ente preposto alla vigilanza è a sua volta fatto controllato dagli stessi soggetti dei quali si deve occupare.
Inoltre, la politica monetaria del Paese, orientata dalle scelte di Bankitalia (e della Bce, ovviamente), è inevitabilmente condizionata dagli interessi privati che in quegli istituti trovano rappresentanza e voce attraverso le banche che sono socie di capitale.
A questo assetto si è giunti a seguito di un lungo percorso di cui è precursore l’iter di distacco della Banca dallo Stato, avviato già nel 1981 dal ministro del Tesoro, Beniamo Andreatta (Dc), che portò come conseguenza l’esplosione del debito pubblico. Il successivo processo di privatizzazione segue tappe contrastate, passa attraverso la trasformazione degli istituti di credito pubblici in banche di diritto privato (fra il 1990 e il 1997), segna un punto decisivo fra il 1998 e il ’99 con la riforma Ciampi-Amato e giunge a compimento nel 2004 con la piena definizione del ruolo delle fondazioni bancarie. La conseguenza è una privatizzazione che ‘di fatto’ investe anche della Banca d’Italia, poiché proprio gli istituti di credito privatizzati sono i suoi principali azionisti, unitamente ad alcune società assicurative [leggi sul sito della Banca d’Italia la composizione ufficiale dell’azionariato].
E’ vero che Bankitalia resta assoggettata al diritto pubblico: ma ciò significa solamente che è vincolata a specifiche normative che ne riconoscono il particolare rilievo e ne impediscono, per esempio, il fallimento. E questo non toglie nulla al potere di condizionamento esercitato dai soci, i quali non sono rappresentanti indicati dai cittadini, bensì dirigenti scelti dai vari potentati economico-industriali che detengono le quote della banca.
È vero che la nomina del Governatore viene formalizzata dal capo dello Stato su proposta del presidente del Consiglio. Ma è altrettanto vero che il capo del Governo di norma recepisce il suggerimento formulato dei vertici stessi della Banca d’Italia. E in tutti modi, aldilà del ruolo di indirizzo certamente significativo del Governatore, nell’ordinario funzionamento della banca contano assai anche tutti gli altri dirigenti e i ruoli intermedi, sulla cui nomina e azione è impensabile che i soci (privati) non esercitino influenza.
Ieri sera il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, è stato ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Ma neppure in questa circostanza si è fatto minimamente cenno al tema degli assetti proprietari di Banca d’Italia e dei condizionamenti che da questi ‘asset’ derivano. La questione evidentemente è ritenuta marginale o – più realisticamente – imbarazzante e quindi da evitare con cura. Un certo imbarazzo il fatto suscita di sicuro. Tant’è che fino al 2005 non fu resa pubblica la composizione del capitale poiché era considerata materia riservata (alla faccia della trasparenza). Si arrivò poi a conoscerla solo grazie a un ottimo lavoro di giornalismo investigativo condotto dal settimanale Famiglia cristiana che nel 2004 per primo rivelò chi erano i soci di Bankitalia.
Al termine dell’intervista su Rai 3, Visco ha segnalato come Banca d’Italia “è un istituzione molto seria che lavora per la collettività” ed è per gli italiani garanzia del buon funzionamento del sistema bancario. Ma come può esserlo fino in fondo se le scelte strategiche non sono determinate in maniera libera ma subiscono al contrario il condizionamento degli operatori di mercato, che compongono il suo azionariato, fatto di banche private le quali hanno per soci imprenditori, industriali, capitalisti, cioè soggetti con radicati interessi economici di parte da tutelare e difendere?
Così, di fatto, le politiche monetarie – disegnate da quella che nel sito ufficiale viene pomposamente definita come “Banca della Repubblica italiana” – sono ispirate da soggetti privati che non hanno a cuore l’interesse collettivo ma il tornaconto dei propri grandi finanziatori. Per dirla in termini semplici, sono i potenti che reggono la Banca d’Italia e condizionano le scelte monetarie ed economiche del Paese. Lo stesso avviene anche a livello europeo con la Bce, i cui azionisti sono le banche centrali dei Paesi membri dell’Unione che, nella maggior parte dei casi, come la Banca d’Italia sono rette da azionisti privati. In questo modo, sotto una patina di rispettabilità istituzionale, i ricchi signori di ogni nazione esercitano la propria posizione di comando.
A governarci, cioè a determinare le scelte economiche che sempre più condizionano quelle politiche, non sono dunque i membri eletti democraticamente dal popolo, i rappresentanti dei cittadini, ma i potenti, resi tali dalla capienza delle loro tasche, dall’accumulo di ricchezze. Detta banalmente, ma in modo chiaro e diretto, oggi come ieri, chi ha i soldi governa il mondo. E lo fa pure con una parvenza di formale intangibilità. È il trionfo mascherato, ma assoluto, del capitalismo.
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Sergio Gessi
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