A volte la notizia di una morte illustre, invece di molte e importanti parole di lode e di cordoglio, ti suggerisce un piccolo pensiero privato. E’ quello che mi è successo quando le agenzie hanno battuto la morte di Gianni Celati. Grande, grandissimo scrittore, l’ultimo del nostro Novecento. E molto altro: docente di letteratura inglese a Bologna e a Providence, attentissimo traduttore (al ‘suo’ Ulisse, una delle sue ultime sue fatiche, lavorò sette anni). Curioso dei particolari e del Tutto, “guardatore” di molti mondi: dalle condizioni di luce sulla via Emilia, al Grande Fiume che arriva a mescolarsi al mare, all’Africa: alle sue lingue e ai suoi enigmi. Camminatore per vocazione e per stile, alla ricerca di luoghi, uomini, gesti, miraggi e apparenze.
Invece, o appena prima di pensare a questo e a tanto altro, ai suoi libri così unici, stranianti, ‘superficiali’ e profondi, a questo grande scrittore e grande uomo (guardate nel ritratto di copertina la sua faccia da contadino emiliano). Prima di questo ho provato un dolore privato, perché il mio desiderio era morto per sempre. Morto insieme a Lui.
Da sempre – ero un ragazzo e già leggevo le Avventure di Guizzardi – avevo il pensiero, il pallino, la certezza che prima o poi lo avrei incontrato. No, niente intervista. Mi sarei seduto a un tavolino di un bar Sport, a Ostellato, o Mezzogoro, a Sandolo, o davanti alla Sacca di Scardovari. Lui avrebbe parlato e io ascoltato; mi avrebbe indicato col braccio gli oggetti vicini e domestici, le “case geometrili”, il silenzio intatto del Fiume. Mi avrebbe parlato dei suoi incontri, di Pino, di Rosanna, di quella donna anziana che un po’ assomigliava a sua mamma. Di quel pensiero che proprio quel mattino lo aveva visitato.
Gianni Celati è morto. Non potrò ascoltarlo, guardare il suo sguardo, imparare da lui. Rimangono i suoi libri, il suo stile realistico e visionario, il suo documentario del mondo. Non è davvero poco per chi vorrà leggerlo o rileggerlo. E’ tanto.
P.S.
Proprio stasera , un amico mi ha segnalato (regalato) un testo di Gianni Celati di cui ignoravo l’esistenza, un piccolo saggio dedicato alla Invettiva. Invece di parare sul solito Dante, Celati sorprende il lettore con questa chiusa:
” […] e come ulteriore prova non sapremmo citare esempio migliore del Manifesto comunista del 1848; il massimo esempio, a nostro parere, di invettiva moderna, dove quest’arte recupera tutte le proprie virtualità arcaiche, trasformando i dati oggettivi in iperbole allegorica, diffondendo colpa, sospetto, timore, riproponendo nel modo più netto il contrasto tra desiderio e realtà, e la contraddizione viva che l’uomo patisce: non v’è nulla di paragonabile nel nostro ed in quel secolo, anche considerando il Manifesto sotto un profilo strettamente letterario. E questa è l’invettiva.”
(Gianni Celati, Manifesto dell’invettiva, in “Il Caffè”, n.4, ag-sett. 1968, pp. 50-53)
Cover: Gianni Celati, foto da ilriformista.it (su licenza Creative Commons)
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Francesco Monini
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