Pubblicato il 13 maggio 2016
Gianni Flamini, giornalista e scrittore, è fra i maggiori esperti di terrorismo. Nel corso della sua lunga carriera si è spesso occupato di fenomeni eversivi e delle strategie attuate da corpi deviati dello Stato per condizionare la vita politica e sociale del paese.
Con il mio ultimo lavoro, “La Repubblica in ostaggio”, non ho sicuramente l’ambizione di esaurire in poche pagine la storia della politica criminale che ha tenuto in ostaggio questo paese – storia che tra l’altro temo molto non sia finita. Più modestamente questo libretto si occupa in grande sintesi solo di un aspetto imponente di quella politica criminale, ossia di terrorismo sovversivo. Suo scopo è anche fare da apripista a una bancadati che contiene 70 anni di fatti terroristici e di episodi con una valenza politica finalizzata a condizionare l’assetto democratico. Settant’anni equivalgono ad almeno tre generazioni e, dato che tenere in ordine la memoria è un esercizio scarsamente praticato, il ricordo di quei fatti è esposto al rischio concreto di ossidarsi al punto da ridursi in una incomprensibile melassa che di sicuro fa comodo agli strateghi, rimasti in ombra, di quella lunga stagione di violenza. Caratteristica della Repubblica è difatti anche la sua solida stratificazione di ricatti e di segreti non rivelabili e quando, agli inizi degli anni Novanta, più o meno attorno alla caduta del Muro di Berlino, il terrorismo – tutto il terrorismo, nero o rosso che fosse – venne ritirato dalla scena si alzò un coro trionfale: “Il terrorismo è stato vinto, si può voltare pagina”. E la pagina fu voltata senza neanche leggerla, mentre in Italia di muri non ne sono mai caduti. Detto questo, in via preliminare va tentata una possibile definizione del terrorismo e una che penso sia corretta è la seguente: il terrorismo è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Ossia è uno strumento di strategia politica. Ragion per cui la prima conseguenza che ne discende è che se non si individua e si neutralizza il disegno politico a cui è sotteso, il terrorismo non si vince. Contrariamente a quanto si è sempre fatto, si sarebbe dovuto proiettare le sue imprese e le sue diverse stagioni (terrorismo nero, rosso e perfino bianco, prendendo per buono il vanto di un sovvertitore bresciano di nome Carlo Fumagalli) sullo sfondo dello svolgersi della vita politica nazionale, dei suoi snodi più delicati e dei suoi cambiamenti (centrismo, centrosinistra, centrodestra, compromesso storico o solidarietà nazionale). E invece ci si è costantemente e pervicacemente limitati a considerarne ogni singola impresa, finendo per trascurare l’esistenza dell’albero mentre si discuteva separatamente di ognuno dei suoi rami.
Sto dicendo che il fenomeno del terrorismo non è mai stato affrontato con un approccio complessivo, per esempio con il metodo che il giudice Falcone applicò alla mafia permettendogli di ricostruirne il profilo, sia nei particolari sia nel suo insieme, fino a individuare l’esistenza della Cupola, ossia del luogo dove tutto si decideva. Prima, nel caso della mafia, le sue azioni venivano liquidate una a una come questioni di corna, di vendette e di ritorsioni. La stessa logica ha continuato a tener banco in materia di terrorismo, con il risultato di non averne individuato nessuna Cupola.
Eppure con una analisi minimamente disinibita sarebbe stato abbastanza agevole capire quale fosse la logica politica del terrorismo. Certamente ai piani alti del potere c’era chi l’aveva capita, anche perché l’aveva promossa in quanto una strategia basata su tensioni e allarme sociale era funzionale alla manutenzione di un certo tipo di potere che si voleva intramontabile. Basta ricordare le parole di un generale di nome Gianadelio Maletti, che fu numero due del servizio segreto militare nella prima metà degli anni Settanta ed è tuttora latitante in Sudafrica per sottrarsi a una condanna tutto sommato solo pro-forma per la strage alla Banca dell’Agricoltura di Milano del 1969. Ha detto quel generale: “La Cia voleva in Italia, attraverso la creazione di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell’estrema destra, l’arresto dello scivolamento verso sinistra. Nei servizi italiani esisteva un orientamento favorevole a questo progetto”.
Da qui il trionfo del terrorismo cosiddetto nero, poi trasformatosi in terrorismo cosiddetto rosso nel momento in cui la sinistra faceva il pieno di voti. Con l’effetto pratico di precipitare il paese in una tragedia a causa della persistenza sulla scena nazionale dei duri e puri delle Brigate Rosse. Anche se, a dar credito a qualcuno di loro, non sembra fossero poi così duri e puri. Venuto il tempo dei ripensamenti Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, se n’é uscito infatti con il discorso che segue: “I carabinieri avrebbero potuto arrestarci in qualunque momento, ma non andarono mai a fondo. Quelli che si servirono di noi lo fecero per stabilizzare il quadro politico escludendo la sinistra dal potere”.
In questa frase ci sono due riferimenti importanti. Il primo è a quelli che si servirono di loro, purtroppo chiamati in causa senza fare nomi, che li avrebbero usati come marionette col mitra; l’altro è alla stabilizzazione del quadro politico. Era norma che le bande dei terroristi, nere o rosse che fossero, venissero sistematicamente accusate di destabilizzare il paese. Perlomeno fino al giorno in cui finì nelle mani dei magistrati del tribunale di Roma, che per la verità non gli dettero molto peso, un manuale – più esattamente un manuale da campo top secret – destinato alle forze speciali americane intitolato “Operazioni di stabilità e servizi segreti”, firmato Westmoreland, un generalone che si era fatto un nome in Vietnam. In quel manuale era contenuta la direttiva di “destabilizzare ai fini di stabilizzare”, esattamente la funzione che il brigatista Franceschini dichiarerà essere stata assegnata alla sua banda terroristica. Ossia niente novità, nessuno cambiasse le carte in tavola.
Ripensando alla storia del sistema di potere in Italia è innegabile che esso sia stato stabile e stabilizzato per decenni con il contributo di un pugno di partiti. Sempre gli stessi partiti (uno soprattutto, la Democrazia Cristiana), mentre soluzioni alternative non riuscivano a imporsi. C’è una prova regina per dimostrare questo assunto. Porta la data del 16 marzo del 1978, e fu il giorno in cui l’onorevole Moro, partecipe di un progetto politico detto di ‘solidarietà nazionale’, in grado di smuovere le acque stagnanti della politica nazionale, per garantire la stabilità dell’assetto vigente, venne destabilizzato lui stesso insieme al suo progetto. Di nuovo: nessuno s’azzardasse a cambiare aria nelle stanze.
Dicevo della distrazione dei magistrati di Roma che si ritrovarono al cospetto del manuale che istruiva su come stabilizzare destabilizzando. Devo ammettere che quei magistrati avevano forse qualche serio motivo per pensare ad altro (sempre che l’avessero voluto) perché insieme a quel manuale gli capitò tra le mani un altro documento ben più corposo e con eclatanti richiami alla situazione italiana. Era un documento che aveva come titolo “Piano di Rinascita Democratica” e la paternità della loggia massonica P2. Poi si scoprirà che la sua origine risaliva alla metà degli anni Settanta e che da allora stava camminando con le gambe di politici spregiudicati.
E’ a questo punto che prende consistenza il dubbio cui ho accennato all’inizio sulla possibilità che il suo risvolto criminale tenga ancora in ostaggio la Repubblica. Il dubbio si fonda sull’agire, all’inizio in chiaro-scuro e poi dai sottoscala nazionali, di una tra le strutture più minacciose che abbiano proiettato la loro ombra sull’assetto repubblicano. Sto parlando della Loggia massonica P2, il cui padrino e promotore era Licio Gelli, toscano di Pistoia deceduto a dicembre a 96 anni d’età. Personaggio cinico e multiforme dotato di grandi capacità manovriere tanto che un suo riluttante collega di loggia, un generale tanto per cambiare, ne descrisse l’efficienza con queste parole: “So come dovrei fare per tenere uno stato in soggezione. Ne indebolirei le capacità di difesa e gli uomini che userei sarebbero dei Gelli, validissimi come demolitori”.
In sintesi la P2 era una loggia segreta che Gelli riuscì a trasformare in un potente organismo a cui erano associati uomini politici, ministri, banchieri, dirigenti dei servizi segreti, giornalisti, alti burocrati statali e una moltitudine di militari di alto grado: dodici generali e otto colonnelli dei carabinieri, otto ammiragli, ventidue generali dell’esercito, cinque generali della Guardia di finanza, quattro generali dell’aeronautica.
Due esempi per avere un’idea dell’onnipotenza della Loggia. Il primo risale alla fine del 1977 e si riferisce all’ennesima riforma dei servizi segreti con l’istituzione del Sisde per gli affari interni e del Sismi per l’estero: il governo ne affidò la direzione a due generali associati alla P2, facendo di Gelli il garante della sicurezza nazionale proprio nel momento in cui stava tramando per ridurla alla propria misura. Il secondo episodio si riferisce a eventi più recenti, ossia alle stragi compiute a Firenze e a Milano nel 1993 e poi semplicisticamente e farisaicamente attribuite alla mafia e a nessun altro. Era una stagione di pesanti rivolgimenti interni e alla tensione che aveva raggiunto altissimi livelli dette voce il capo del governo Carlo Azeglio Ciampi, che disse: “In quelle settimane si temeva davvero un colpo di Stato. Lo ammetto: io temevo il peggio dopo tre o quattro ore a Palazzo Chigi col telefono isolato. C’erano molti sospetti di collegamento con la Loggia P2”.
A cavallo tra il 1975 e il 1976 quella specie di confraternita diventò la maggiore aggregazione di Stato e anti-Stato mai vista prima. Già compromessa con terroristi e golpisti (detto per inciso Gelli figura anche tra gli imputati condannati per la strage alla stazione di Bologna) cambiò strategia e lo fece adottando un originalissimo strumento ideologico-politico a cui dette nome “Piano di Rinascita Democratica” in cui l’approccio all’eterna aspirazione di neutralizzare le sinistre era basato sul controllo dello stato dall’interno per favorire lo sviluppo di uno stato parallelo autoritario e presidenziale.
I punti qualificanti riguardavano la riduzione dei costi della politica, la contrazione dei diritti sindacali, la separazione delle carriere dei magistrati, il controllo della stampa per dominare le coscienze, l’innalzamento dell’età pensionabile. Forse vi stanno fischiando le orecchie. Resta il fatto che si intendeva realizzare il Piano agendo appunto su partiti politici, Parlamento, governo, magistratura, sindacati e stampa. Tutta ‘merce’ che si poteva comprare senza neanche troppa spesa. Si teorizzava infatti che “la disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere a selezionati uomini di buona fede di conquistare le posizioni chiave necessarie al controllo di partiti politici, stampa e sindacati”.
Il resto non è più storia ma cronaca. Anche dei giorni nostri. Strada facendo è venuto profilandosi un tempo opaco, monocorde e ripetitivo, che ha visto l’arte della politica degradata da un inarrestabile scadimento e relegata al miserabile rango di strumento di affermazione di interessi personali. Il più longevo presidente del consiglio di questa repubblica aveva la tessera numero 1816 della Loggia P2 e si impegnò attivamente a trasformare in realtà alcuni dei precetti del Piano di Rinascita. Tra le sue massime aspirazioni figurava la neutralizzazione del ruolo delle Procure della Repubblica, che riteneva eversivo soprattutto nei suoi confronti. E difatti nel marzo 2011 nella veste di capo del governo varò una ambiziosa e strampalata riforma della giustizia presentata in pubblico con queste parole: «Il pubblico ministero per parlare con il giudice dovrà presentarsi con il cappello in mano e possibilmente dargli del lei».
Dopo di lui altri hanno proseguito il lavoro. Ma il lavoro non è finito, tanto che il “Piano di Rinascita Democratica” è ancora di una attualità tale da mettere i brividi.
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Gianni Flamini
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