Arzèstula, un viaggio a nord-est tra le macerie dei ricordi
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Da Parasacco a Medelana, 16 novembre (prima parte), by Wu Ming 1
Un sogno persistente. Non ho ancora finito la tesi, continuo a raccogliere testimonianze tra anziani parroci e basapilet, beghine di campagna vestite di nero. Strade secondarie mi portano a stradelli ghiaiati e da lì su vialetti sterrati collegati a casolari, sempre col mio registratore. Torno a Ferrara con lo zaino pieno di storie sconnesse, di quando il messale era ancora in latino, il prete ti dava le spalle e il calice di sangue pro vobis et pro multis effundētur, a rimettere i peccati. Ho venticinque anni e devo sbrigarmi, “stringere”, la sessione è dietro l’angolo e il relatore è impaziente, vuoi deciderti o no, hai intervistato cento persone, te la sarai fatta un’idea. Hai letto il libro di Revelli, hai letto il libro di Portelli, hai letto il libro di Bermani e pure quello di Montaldi, che ne pensi del ricordo come fonte storiografica? Hai tracciato lo schema X? Hai fatto i debiti confronti? Un sogno ricorrente. Ogni volta tocco il fondo di una conca di nebbie, intrepida come la prima storica sulla Terra, colei che narra la madre di tutte le storie, e scopro che prima di me è passata un’altra tizia, l’intervistanda è svuotata, ha parlato per ore e non ne vuole più sapere: “Potevate anche mettervi d’accordo, ragazola, se venivate insieme queste cose le dicevo una volta sola… Raccontavo di quando son stata a S. Pietro, del Papa che è
venuto a Consandolo… Ades a son stufa, a voi andar a let.”
Metterci d’accordo. Pare facile, ma io non so chi sia, questa che mi precede. Lo scopro (scoprirò) soltanto in un altro sogno, ma sono episodi a tenuta stagna, ciò che imparo in un sogno non scorre in quello seguente.
Del resto, i sogni non sono il mondo. Nessun papa è mai stato a Consandolo.
Lo devo scoprire ogni volta, che a precedermi è la Scrittrice.
Mi son svegliata all’improvviso, con tanto freddo intorno.
Ingrottita.
Ingrottita? “Ingrottirsi”. Questo verbo in italiano non esiste. Ingrutiras, rattrappirsi, accartocciata nel sacco a pelo per via del gelo. Minima detonazione, parola che torna dall’infanzia, sciabordìo nella testa. La lingua della madre risospinta fino a me.
Eccomi qui, dopo tanti anni, sui mont ad Parasac.
I monti di Parasacco in realtà non esistono. Nessuna altura, a Parasacco. Nessuna altura tutt’intorno. Anche prima della Crisi la Bassa era bassissima, scodella di bruma e terra grigia. I “monti” di Parasacco son due piccoli dossi, dune coperte d’erbacce, in quello che era un cortile privato. Solo una vecchia battuta, un cliché d’antecrisi.
“Dove sei stato in vacanza?”, chiede Tizio.
“Sui mont ad Parasac!”, – risponde Caio, cioè da nessuna parte.
Sarcasmo da contadini.
Parasacco era un villaggio di poche case, sull’ansa di una strada che s’infrattava verso sud dalla Rossonia, poco prima del bivio per Medelana. La Rossonia continuava a correre fino all’Abbazia di Pomposa. Il viandante, invece, scendeva nel comune di Ostellato, ammirando capezzagne di tristezza.
Medelana, paesello già spettrale alla fine del secolo scorso, ora poco più di una bava grigioverde all’orizzonte. Quand’ero ragazza, andar a Madlana significava andare a vedere i porno. A Medelana c’era un cinema, i miei compagni di scuola ci andavano già da minorenni. Pellegrinaggi mesti in comitiva, immagini ferme proiettate in sequenza su un lenzuolo, per dare un’illusione di movimento: cazzo dentro, cazzo fuori, cazzo
dentro, cazzo fuori, schizzo, si ricomincia. Poi il cinema chiuse.
Ogni tanto lo riaprivano per una tombolata, sempre più di rado, infine si spense.
Poco distante, l’ex-fabbrica di “stampi da caccia”. Anatre di plastica. Il muro maestro è crollato, la pioggia ha sciolto gli scatoloni e i palmipedi sono fuggiti. Anatre di plastica nel canale
San Nicolò, anatre nel Po di Volano. Ai miei tempi era più basso e stretto. Dopo la Crisi si è alzato, certamente più di un metro, e si è allargato. Adesso è un Signor Fiume.
Eccola, invencible armada di anatre in viaggio verso il mare.
Quelle che non s’impiglieranno nei canneti, chissà dove finiranno. Forse arriveranno, tra cent’anni, fino alla Grande Macchia, vortice di immondizia che galleggia nel Pacifico e prima o poi raccoglie ogni pezzo di plastica finito in acqua. La immagino sotto il sole, la Macchia: una distesa quieta, aromatica.
Baciata dal sole. Fotodegradantesi.
Anatre, eccomi qui. La voglia di tornare è cresciuta veloce com al canarin d’Alvo.
Pensa che mi torna in mente. Una storia di prima che nascessi, qualcuno aveva venduto a un certo Alvo un anatroccolo, spacciandolo per canarino. Alvo lo mise in gabbietta e quello crebbe, crebbe, crebbe finché… dall’aneddoto nacque il modo di dire. At cresi com al canarin d’Alvo si diceva ai nipotini da una visita all’altra, si diceva agli undicenni durante l’estate. Ma sto divagando, mi chiedevo…
Mi son svegliata all’improvviso, con tanto freddo intorno. Un lucore pallido abbraccia il mondo, foschia si alza da acquitrini e grandi stagni che un tempo erano campi, foschia come quand’ero ragazza. A nord-est si allunga una striscia frastagliata. La superstrada per Porto Garibaldi. Quel che ne resta.
Cerco la casa della mia infanzia.
Giorni fa, entrata a Ferrara, ho trovato l’anastatica di un vecchio dizionario. Pagine gialle e deformi, macchie di muffa. Il Vocabolario Ferrarese-Italiano di Luigi Ferri, 1889. L’ho letto lungo il pellegrinaggio, voce per voce, pagina dopo pagina, accampata sotto antichi cavalcavia, seduta sul rotolo del sacco a pelo, gambe dolenti dopo migliaia di passi nel fango.
Che tetra sfilata di parole estinte! Frasi idiomatiche che usavano le nonne, perse molto prima della Crisi.
Argur
Zarabigul
Arzèstula
…ramarro, formicaleone, cinciallegra…
Sciorzz
Baciosa
Capnegar
…lucciola, chiurlo, capinera…
Ricordi vaghi, sussulti, vibrare incerto di neuroni.
Alievar.
Lepre.
Già quand’ero piccola, nei campi dietro casa non c’erano più lepri. Sterminate, tutte. Ne vidi una soltanto a nove anni, già putrefatta, forse l’ultima del suo mondo. Sterminio: prima degli enti mancarono le parole. E adesso che gli “enti” tornano, e chiurli ne sento spesso e le sere d’estate è pieno di lucciole, le parole sciorzz e baciosa son più morte che mai.
La controbonifica è in corso, lenta, contrastata ma inesorabile.
L’oriente della vecchia provincia è sotto il livello del mare, scende anche di quattro metri e l’acqua s’impunta, vuole tornare nei luoghi da cui fu espulsa. La Commissione mantiene il minimo di controllo, ma alcune idrovore non funzionano più e interi comuni hanno capitolato. Chissà che ne è stato delle Magoghe. Era il luogo abitato più basso d’Italia.
Davamo per scontato il territorio intorno a noi. Pochi si fermavano a pensare che, ogni profano giorno, qualcuno doveva controllare e pompare via l’acqua, perché le nostre case non fossero allagate. Levo una preghiera per quei lavoratori del Consorzio. Li ringrazio per quello che hanno fatto, e ringrazio chi di loro è rimasto a vigilare. Li ringrazio per questo lavoro di Sisifo, mantenere emerse porzioni di una terra che, presto o tardi, capitolerà di fronte al mare. Le acque salate già si innalzano, la costa annega lenta. Almeno così raccontano i viaggiatori, così racconta il radioamatore di Porto Tolle.
Penso a te, guardiano della bonifica. Non so chi ti stia dando un salario, né come né quanto. Non so cosa pensi di salvare, non so cosa vuoi che non si perda, non so cosa sogni mentre sogno, ma so che qualcosa stai salvando, e sono tua alleata, tua sorella. Io come te, tu come me, cerchiamo nel passato un avvenire.
Oggi, ad ogni modo, le acque nei canali sono ferme. Da una settimana il cielo ci risparmia, incombe triste ma non lacrima.
Della casa della mia infanzia resta poco, spaccata com’è da rampicanti, piegata verso nord dal pino crollatole addosso. Ed è così piccola… Quand’ero cirula, mi circondava come una reggia.
D’inverno ci teneva caldi, fuori la neve copriva la terra e sotto il manto, come tuberi, restavano i ricordi dei giochi al sole.
Aprile passava tra gli scrosci, la pioggia ci sorprendeva e riparavamo sotto i portici dei fienili, molti già abbandonati.
L’estate arrivava all’improvviso, senza dir ne asino ne porco. Ci mettevamo al sole, bevevamo limonate, facevamo filo, chiacchiere che non erano nulla, eppure erano noi.
Ora la casa è tanto piccola, o forse io sono più alta. Ho almeno una spanna di fango sotto gli scarponi.
Gli dèi sono stati buoni con papà e mamma. Se ne sono andati prima di vedere la Crisi, né oggi vedono questo.
Il sole è già basso. Non voglio entrare. Sento di non essere forte abbastanza.
Da una breccia nei muri consumati scivola fuori una cosa pelosa. E’ un ratto. No, un furetto. Un furetto, si allontana senza guardarmi, si infila tra gli arbusti. E’ di certo un discendente di bestiole da compagnia inselvatichite, che i padroni non fecero in tempo a sterilizzare.
La Crisi arrivò prima del veterinario.
Non riesco a dormire, leggo. E’ quasi l’alba, ma leggo. La luce del falò fa tremare le lettere.
A bissabuo
Snestar
Barbagul
…a zig-zag, di traverso, bargigli…
Pinguel
Budloz
Rugnir
…palato, cordone ombelicale, nitrire…
Vedere le macerie di una lingua strizza il cuore. Ogni parola che si estingue è una casa che cede, si piega e si infossa, affonda nella sabbia.
Queste erano parole abitate, esseri umani le riempivano di vita e di storie.
Vedere le macerie può farti immaginare com’era la casa.
Immaginare i passi, i bimbi che correvano, le voci che passavano di stanza in stanza… Ma non puoi abitare le macerie come si abita una casa. Le macerie non torneranno casa. La casa non esiste più.
Alzo gli occhi dal libro e a lungo cerco le Pleiadi, ma non le trovo.
E’ il mio ultimo giorno qui. Domani tornerò a sud-ovest.
Racconto apparso nell’antologia “Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile.” A cura di Giorgio Vasta, Minimum Fax, Roma 2009.
© 2009 by Wu Ming 1, [vedi]
Foto Andreas Trepte
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