ARTE
In mostra le luci e le ombre di Artemisia Gentileschi, eroina protofemminista dell’Italia barocca – seconda parte
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[segue dal settimanale precedente]
Il successo fiorentino della “pitturessa” è quindi legato alle sue invenzioni teatrali, vicine alle rievocazioni storiche e mitologiche del coevo teatro musicale, come nella grande tela con ‘Ester e Assuero’ (1626- 29), New York, The Metropolitan Museun of Art. Nella scena in cui Ester compare dinnanzi al trono del marito, si svolge una complicata storia d’amore, di morte, di virtù e di potere. Il tema dell’incontro tra Ester, eroina ebraica e Assuero, potente re di Persia, è narrato dall’artista con la solita ricchezza di particolari: abiti sfarzosi ed enfasi melodrammatica che sottolinea lo svenimento della giovane donna indebolita dal digiuno, il pallore del suo volto, l’immediata reazione delle due ancelle che prontamente la sorreggono, mentre il giovane Assuero si alza preoccupato dal trono per andare in suo soccorso. Prova di bravura tra le più riuscite, questa versione dell’episodio biblico non ha riscontri in nessun altra rappresentazione analoga dell’epoca per originalità e spirito barocco, evidenti nel contesto spaziale e nel movimento dei due protagonisti che, mimando un andamento di danza, rivelano la relazione complessa che li lega e l’enfasi dell’artista spinta con empatia a sedurre lo spettatore.

Nel 1622, Artemisia fa ritorno a Roma, dove intreccia un intenso rapporto di committenza con Cassiano Dal Pozzo, colto nobiluomo toscano, studioso e collezionista che intrattiene una fitta corrispondenza con molti artisti del suo tempo, inclusa la Gentileschi, di cui sarà il principale sostenitore e alla quale commissionerà il celebre ‘Autoritratto come allegoria della pittura’ (1630, Londra, Windsor Castle Royal Collection). Dal Pozzo stava raccogliendo una collezione di ritratti curiosi di persone singolari per stravaganza o rara intelligenza ed aveva già commissionato alla pittrice Giovanna Garzoni, un ritratto di Anna Colonna e nella sua raccolta vi era pure un ritratto di Cristina di Svezia. L’autoritratto di Artemisia non si inquadra in nessuna tipologia consolidata per gli autoritratti. Il soggetto non guarda direttamente l’osservatore, ma è comunque un’immagine autoreferenziale, un’allegoria appunto nelle sembianze della pittura. Probabilmente l’artista trasse ispirazione dalla descrizione che ne fa Cesare Ripa nella sua Iconologia. Infatti nel dipinto appaiono gli stessi attributi della personificazione della pittura: la catena d’oro, la maschera pendente che rappresenta l’imitazione, i riccioli ribelli della donna che simboleggiano la creatività artistica, l’abito cangiante segno di maestria esecutiva.
Famose artiste rappresentarono se stesse prima di Artemisia: Sofonisba Anguissola (1535-1625) e Lavinia Fontana (1552-1614) ritraendosi spesso o al cavalletto o nello studiolo. Entrambe tuttavia mettevano in risalto oltre alle proprie capacità artistiche anche la propria condizione nobiliare. All’ ‘Allegoria della pittura’, invece, Artemisia offre le proprie sembianze per sottolineare la straordinaria posizione di donna pittrice (nell’atto stesso di dipingere), di cui troppo spesso aveva sperimentato la grande anomalia. Essere donna, nella categoria dei pittori, corrispondeva ad aver raggiunto il prestigio sociale di personaggi famosi come Anton Van Dyck di cui conosceva l’autoritratto. Ad osservare attentamente l’autoritratto della pittrice sembra che dalla sua bocca escano le parole che scriveva al suo corrispondente Don Ruffo in Sicilia: “E farò vedere (…) quello che sa fare una donna”, aggiungendo poi “ritroverà uno animo di Cesare nell’anima duna donna”. Dopo un soggiorno a Roma documentato negli anni 1622, 1625, 1626 e un probabile soggiorno a Venezia si stabilisce a Napoli fino al termine della sua vita (1654 circa), trascorrendo però a Londra un breve periodo (1638-39) per completare gli affreschi con il trionfo della pace e delle arti nel soffitto della Qeen’s House di Inigo Jones a Greenwich, iniziati dal vecchio e ormai ammalato padre, Orazio.
A Napoli arrivò nel 1630, in tempo per vedere l’eruzione del Vesuvio (1631) e vivere avvenimenti drammatici della storia napoletana come la rivolta di Masaniello (1647). Qui si fa largo nel clima artistico postcaravaggesco dello spagnolo Giuseppe Ribera, il cui prestigio è tale da mantenere un primato assoluto sulle commissioni del Vicereame e nella lontana Spagna. Ospite del Ribera a Napoli sarà Velazquez nel 1630, una presenza che avrà un forte impatto sugli umori degli artisti napoletani e fra i primi proprio sul Ribera che virerà verso un neovenetismo squillante e sentimentale e detterà legge fra i vari Domenico Gargiulo, Onofrio Palumbo, Aniello Falcone e Massimo Stanzione. Sarà con quest’ultimo che Artemisia avvertirà maggiori consonanze che porteranno a scambi fruttuosi e alla condivisione di importanti committenze come nella serie delle sei tele con ‘Storie di San Giovanni Battista’ commissionate dal Viceré spagnolo il Condè di Monterrey per il re Filippo IV di Spagna (1633-34). Come a Firenze e a Roma anche a Napoli la pittrice si era assicurata solide protezioni: a Napoli fu Cassiano Dal Pozzo a garantirle un canale di accesso privilegiato alla corte spagnola e a procurarle la prestigiosa commessa. Delle sei tele della serie delle Storie del Battista, le viene assegnata la ‘Nascita di San Giovanni’ (Madrid, Prado), che Roberto Longhi nel suo fondamentale articolo del 1916 lodò per il realismo dell’ambiente domestico, per la precisione lenticolare degli arredi e per la gestualità dei personaggi.
L’intenso caravaggismo, unito ad un’illuminazione quasi teatrale e allo stile classico delle figure influenzate dai modelli di Simon Vouet rafforzano il bilanciamento della composizione articolata in due gruppi in cui emergono figure femminili tra le più belle della sua produzione, come la fanciulla inginocchiata a terra alla destra del neonato. Tanto che lo storico De Dominici ne ‘La vita del cavalier Massimo Stanzione’ (1742-1744) raccontava che il pittore andava tutti i giorni a guardare Artemisia mentre dipingeva e tentava di imitare la freschezza del suo colore meraviglioso. A Napoli l’artista fu ammirata e imitata dai maggiori pittori per il virtuosismo luministico, la raffinata sericità della sua tavolozza, tanto che non le mancò il successo nella città che era diventata la nuova capitale dell’arte, meta di mercanti d’arte e di pittori in cerca di nuove committenze. Anche i pittori della corrente bolognese del classicismo furono attratti dalle possibilità che offriva la città partenopea, ma, al contrario di Artemisia, il loro soggiorno venne ostacolato dagli artisti locali. Guido Reni approderà a Napoli nel 1622 con “sospettoso perbenismo bolognese, verrà coinvolto nelle beghe camorristiche dei clan locali, e al cadere della terza settimana se la batterà all’inglese.
Forte e nevrotico nel purpureo orgoglio pontificio, Domenichino, il fragile Domenichino erede di Apelle, nel 1634 lascerà Roma, scettica e ingrata, per rifarsi una vita sotto il Vesuvio (…) e verdà sparire le ultime energie, fino ad una agonia esangue, memore (…) della lontanissima soffice patria emiliana” (Flavio Caroli). Artemisia invece ottenne a Napoli importanti commissioni per quadri devozionali, pale d’altare, quadri da stanza e prestigiose opere pubbliche, collaborando anche tra il 1635 e il 1637 con Giovanni Lanfranco, Paolo Fenoglio e Massimo Stanzione al vasto cantiere della cattedrale di Pozzuoli. Camaleontica per la capacità di assorbire le novità pittoriche di ogni città visitata e di conformarsi al gusto dei committenti, Artemisia rappresenta la più geniale antesignana della moderna donna artista.
*Il presente articolo non intende essere una recensione all’ennesima mostra di Artemisia, ma un contributo per comprendere la modernità della sua grande personalità.

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Anna Maria Baraldi Fioravanti
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