Skip to main content

APPUNTI SUI POLSINI
Quando il Parlamento assomiglia a San Siro

Il sacco dell’eredità del Vecchio Anno è talmente grande e pesante, logoro e torbido, pieno di bruttissime sorprese e trabocchetti, che sarà davvero impossibile trasportarlo (in tutto o in grande parte) sulle spalle del Novello 2019. Tutto sommato sarebbe una gran fortuna, ed è quello che tanti italiani si augurano, oggi più che mai: “Anno nuovo, Italia nuova”.

Basterà raccontare le ultime due ultime scene indegne, diverse in apparenza ma identiche nel contenuto, che ci hanno accompagnato nel mese di dicembre. Eccole in sequenza.

Il tempio italiano del pallone, lo Stadio di San Siro, resterà chiuso per due turni di campionato: dopo gli incidenti – col morto – prima della partitissima Inter Napoli, è questa l’unica decisione di rilievo presa dalle autorità . Nessuno si è sognato di sospendere il match: ennesimo ossequio al famoso e idiotissimo imperativo categorico: the show must go on.
Ovvio, chiudere San Siro fino a febbraio non aiuterà a salvare ‘il gioco più bello del mondo’. Non ci crede nessuno. E infatti tutti invocano leggi più dure, controlli più efficaci, pene più severe. Serviranno ad arginare razzismo, violenza, guerriglia urbana? Idem come sopra: non possiamo sperarci. O, almeno io, non ci credo: nel passato più o meno recente abbiamo assistito alla stessa identica commedia (dopo ogni tragedia), e ascoltato le solite parole di inutile sdegno e le roboanti e inefficaci promesse di ‘tolleranza zero’.
Allo stadio, durante la partita, è poi successo qualcosa di non meno grave: quando dalla curva degli Ultrà sono partite urla e insulti razzisti e squadristi, tutto il resto dello stadio (parliamo di qualcosa come di 60.000 tifosi, bambini inclusi) invece di zittire le grida violente si è unito al becero coro generale.
Erano diventati tutti violenti, razzisti, pazzi, deficienti? Evidentemente no. Allora perché un manipolo di 300 solisti facinorosi e delinquenti sono riusciti a monopolizzare gli altri 60.000, un intero stadio pieno di famiglie decise a passare un tranquillo Santo Stefano guardando da vicino la squadra del cuore?
Per rispondere – e dovremo pur provare a rispondere a questo absurdum aritmetico – ho sentito due bellissimi ragionamenti general-generici. Il primo: “Bisogna andare a monte del problema”. Secondo ragionamento: “E’ un problema prima di tutto culturale”. Qualcuno – mi pare sia stato proprio il Ministro dell’Interno Matteo Salvini – ha aggiunto una terza ricetta, tanto virtuosa, quanto retorica e usurata: “Bisogna incominciare dalle scuole!”
Non credo alla sbandierata tolleranza zero e, mi spiace dirlo, non credo neppure alla efficacia delle analisi sociologiche o dei fervorini pedagogici. Di questo passo il gioco del calcio dal vivo va verso il suo funerale. Si chiuderanno gli stadi (tutti) e le partite le vedremo esclusivamente nei vari canali televisivi, intermezzate da sempre più invadenti spot pubblicitari. Da lì arrivano il 90 e più per cento degli introiti delle società, quindi gli spettatori in carne d’ossa verranno definitivamente sostituiti dal grande popolo anonimo dei telespettatori-consumatori-scommettitori.
Stavo così sprofondando nel pessimismo più nero; vedevo il triste futuro del glorioso Stadio di San Siro deserto, ridotto a una specie di Colosseo: bigliettai, ciceroni e figuranti vestiti e truccati come Maradona e Roberto Baggio invece che come gladiatori.
Ma la sera, mentre guardavo inorridito le fasi finali della votazione della finanziaria alla Camera, “ho visto la luce” (John Belushi). Forse, perché no, c’era un modo di salvare il calcio. Semplicissimo. E stava tutto in una frase, tanto banale quanto geniale: dare il buon esempio. Però darlo sul serio. E cominciando da dove? Guardando in alto, ‘andando a monte’ appunto. Partendo proprio dal Parlamento..
Fateci caso: l’immagine di San Siro urlante è esattamente speculare a quella del nostro Parlamento terremotato (urla, pugni, schiaffi, cazzotti, spintoni, fogli in aria, cariche a testa bassa, risse, cartelli di insulti) mentre discute in ‘zona Cesarini’ quest’ultima Finanziaria (inconoscibile e truffaldina: ma questa è un’altra storia). E non solo ora, non solo a fine anno: Camera e Senato, in questa e nelle scorse legislature, sono spesso un campo di battaglia (‘merda e arena’): non un confronto verbale ma un luogo di scontro fisico senza esclusione di colpi. Il presidente sbatte il martelletto. Nessuno lo ascolta. Tutti interrompono tutti. Si urla. Si Insulta. Nessuno capisce nulla. Né i ‘molto poco’ onorevoli parlamentari. Tantomeno noi cittadini soldati semplici.
‘Camera Ardente’, così qualche giorno fa una magnifica prima pagina del quotidiano ‘il manifesto” per raccontare la temperatura infernale raggiunta dal dibattito parlamentare sulla Finanziaria.
Non è così dappertutto. Ricordo Theresa May mentre difendeva la sua bruttissima Brexit nell’aula minimal del più antico parlamento del mondo e che, nonostante gli enormi contrasti e un Paese spaccato in due, riceveva dai parlamentari solo degli oh di disapprovazione e qualche sonora risata. Nessun deputato si era però mosso dal suo posto. La premier britannica (potenza dell’humor inglese) si è fermata un attimo, ha risposto con un sorrisino a fior di labbra e ha continuato tranquillamente il suo discorso.
Un bell’esempio. Chissà, magari è anche per questo che gli stadi inglesi (senza sbarre, grate e transenne) hanno vinto la battaglia contro gli Hooligans.
Immaginate ora un deputato italiano che interrompe … e viene spedito in castigo in anti-Camera per mezzora. E se urla agitando un cartello: 3 giorni di stop. Se esce dal suo posto, insulta e aggredisce un collega: un mese di sospensione. Senza stipendio ovviamente. Se poi urla frasi razziste: a casa!, dimissioni immediate. Dura lex sed lex.
Chissà, forse ho esagerato. Ricordo con simpatia un antico episodio di Giancarlo Pajetta che lanciava una seggiola in parlamento (allora però le poltrone erano molto meno imbottite!), ma alla fine rimango della mia idea. Dare il Buon Esempio, banale fin che volete, è una strada che potrebbe funzionare. Per tutti. Per i tifosi. E anche per bambini delle scuole. Portiamoli in visita in un Parlamento civile, e solo dopo portiamoli allo stadio.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

sostieni periscopio

Sostieni periscopio!

Tutti i tag di questo articolo:

Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.


PAESE REALE
di Piermaria Romani

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)