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Da Ufficio Stampa

Gli agricoltori sono stanchi di nutrire e allevare animali selvatici pericolosi per le aziende e la collettività. Dannosa anche la nuova normativa europea che impedisce gli indennizzi.

Allevamenti decimati, centinaia di ettari di raccolti distrutti, frutta e uva irrimediabilmente danneggiate. La crescita esponenziale di grandi animali, ma anche di predatori e di numerose specie di uccelli, ha creato sul territorio dell’Emilia Romagna una insostenibile densità di selvaggina, con danni sempre più estesi all’agricoltura. Lo afferma Coldiretti Emilia Romagna alla vigilia dell’apertura ufficiale della caccia, che prenderà il via domenica 17 settembre su tutto il territorio regionale. La quasi totale assenza e, in alcuni casi, l’impossibilità di un controllo reale della diffusione degli animali, in particolare degli ungulati – commenta Coldiretti regionale – ha portato la presenza degli animali selvatici al di fuori delle aree prettamente montane arrivando in zone anche ad alta densità agricola, provocando forti danni alle colture, dal grano al mais, danneggiati soprattutto dai cinghiali, alla frutta e all’uva, saccheggiati dagli uccelli. Tutto questo senza contare le nutrie, che pur non essendo considerata fauna selvatica, ma solo animali dannosi, quest’anno hanno spopolato nelle campagne perché non è stato possibile controllarne il numero a causa di problemi burocratici.

Secondo gli ultimi dati disponibili, in Emila Romagna, nel 2015 sono stati risarciti agli agricoltori danni per un milione e 142 mila euro. Ad essere colpiti dal proliferare incontrollato di cinghiali, cervi e caprioli, non sono solo gli agricoltori, visto che nel solo 2016 – informa Coldiretti regionale sulla base dei dati Asaps – sulle strade italiane sono stati rilevati 119 incidenti gravi con animali nei quali purtroppo sono morte 16 persone e 151 sono rimaste ferite.

La situazione sta diventando sempre più insostenibile nelle campagne, anche perché del 2016 è cambiata la normativa sulla prevenzione e sugli indennizzi che penalizza ancora di più chi vive del lavoro nei campi. Le nuove norme infatti prevedono che possano essere risarciti solo i danni derivanti da specie protette, mentre per le specie cacciabili sono previsti indennizzi in regime di “de minimis” (quindi irrisori) e non sono previsti fondi per la prevenzione. Si tratta di una normativa dell’Unione Europea che ritiene che per i danni da animali non protetti gli agricoltori siano risarciti dagli introiti della caccia. Peccato – commenta Coldiretti Emilia Romagna – che tutto questo sia possibile in 25 Paesi europei, dove gli animali non sono di nessuno (“res nullius”) o sono di proprietà di chi coltiva il fondo. Negli altri due Paesi, Italia e Grecia, invece gli animali sono patrimonio indisponibile dello Stato, per cui chi coltiva la terra non può ricavare nessun reddito dalla caccia. In questo modo gli agricoltori e gli allevatori italiani sono becchi e bastonati perché con il frutto del loro lavoro nutrono gli animali selvatici che poi vengono cacciati e mangiati o venduti da altri. Le principali specie cacciabili per cui non è previsto nessun risarcimento sono: cinghiale (154 mila euro di danni nel 2015), lepre (95 mila euro), storno (194 mila euro), fagiano (72 mila euro), piccioni (76 mila euro). Si tratta di una situazione estremamente negativa anche per l’ambiente e il territorio perché mette in crisi la biodiversità, creando una situazione di sofferenza per i piccoli animali e la flora. Il tutto aggravato quest’anno dalla situazione di siccità che non è stata dannosa solo per gli animali, ma molto di più lo è stato per gli agricoltori.

“Con gli animali selvatici che stanno provocando danni insostenibili alle imprese agricole mettendo addirittura a rischio la vita dei cittadini nelle aree interne – ha detto il presidente di Coldiretti Emilia Romagna, Mauro Tonello – serve responsabilità da parte di tutti. Non è più solo una questione di risarcimenti dei danni, ma è diventato – afferma Tonello – un fatto di sicurezza delle persone e della vita nelle campagne. Per chi opera nelle aree montane e svantaggiate non è solo è a rischio la possibilità di poter proseguire l’attività agricola ma anche di circolare sulle strade o nelle vicinanze dei centri abitati. Per questo occorre definire interventi adeguati a contenere la diffusione di questi animali e prevenirne i danni”.

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