Anche questa è Europa…
viaggiare attraverso fragili confini
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Klaipeda, due del mattino, stazione delle corriere. L’autobus per Riga partirà tra pochi minuti. Lampioni gialli con intensità al minimo e vento dal Baltico che ti prende a schiaffi.
Sono ancora in Lituania, anche se in realtà la bandiera gialla, verde e rossa da queste parte della nazione, sventola sulle macerie della Prussia orientale. Limes fragili, contesi, strappati di mano con il passare dei Casati e degli Imperi.
Luoghi in cui tutto ti parla attorno, quasi a gridarti la sua storia. Dove casermoni sovietici si alternano a cassette in legno e dai mattoni rossi in una cacofonia di Socialismo reale e villaggi sassoni alla Fratelli Grimm. Nel secolo breve il padrone di turno, come un randagio a marcare il territorio, ha lasciato il suo marchio su ogni muro, su ogni strada.
Ed anche i nuovi ras del quartiere si stanno dando da fare per recuperare il tempo perso. Non arrivano più con i carri armati e il moschetto sulla spalla, ma con facce amichevoli e allegre, negli intermezzi dei programmi della televisione. Gente di cui ti puoi fidare, visi da bonaccione della porta accanto. Offrono crediti ai quali sarebbe una pazzia rinunciare, e nuovi appartamenti dal design moderno accompagnati da mutui trentennali. E se lavoro ce n’è poco pazienza, saranno i figli della diaspora baltica sparsi per l’Europa e per il mondo ad accollarsi le rate e rimpinzare i conti delle banche, a nutrire l’ennesima speculazione. Potrebbe comunque andare peggio, potrebbe piovere. Oppure trovarci a Vilnius, la capitale, un gioiello barocco, dove la bolla immobiliare già da diversi anni pare davvero essere fuori controllo.
Si parte, e sulla corriera siamo quattro fantasmi raggomitolati nei nostri giubbotti invernali. Come dei clandestini, viaggiamo sul filo della Curlandia, la terra che fu dei Cavalieri Teutonici, verso la Lettonia, verso Riga.
Ci lasciamo la città alle spalle e la musica cambia subito registro.
A tratti capita di attraversare qualche paese perso nel fango, isolato da tutto. Poche case di legno, piccole abitazioni sovietiche, tetti in eternit.
E di colpo capisci, nonostante l’Europa e i passi avanti fatti in questi anni, quanto ancora possa essere facile cadere nelle mani delle mafie che ti promettono l’Occidente. Per finire a ballare la lap dance in un night di Londra o Milano, quando va bene.
Una sensazione che e possibile sentire a pelle, senza nemmeno bisogno di andare in giro a chiedere chissà quali conferme.
C’è tuttavia una bellezza fragile e innegabile in queste terre di confine, che come una calamita ti attraggono, spingendoti a tornare, a scoprire nuovi luoghi, nuovi dettagli, o più semplicemente a viverle. Le dune giganti della penisola di Neringa, il carattere tedesco di Klaipeda, lo stile art nouveau di Riga.
E si potrebbe continuare, fino al centro storico di Tallinn, per poi attraversare il golfo di Finlandia, il tratto di mare che la divide da Helsinki. Con la brezza e l’aria del Mar Baltico a fare da compagna fedele per tutto il tragitto.
Questa volta il viaggio mi porta a est, e la destinazione è l’aeroporto internazionale di Riga, dove mi attende un volo per Mosca. Sull’aereo mi prende una profonda stanchezza, certamente per il fatto di avere passato la notte in bianco. Lascio che il torpore mi abbracci, socchiudo gli occhi mentre prendiamo quota ed osservo il panorama dall’oblo. Per una qualche ragione mi vengono in mente gli eserciti che provarono ad attraversare quei territori, ma forse sto già dormendo, e forse tutto è già solo sogno.
Quel giorno ebbi l’impressione di avere finalmente compreso fino a che punto potesse spingersi la pazzia dell’uomo. E ne provai quasi paura. Le nevi si stavano sciogliendo e sotto di me si estendeva un territorio enorme, senza punti di riferimento visivi o cardinali, caratterizzato solo dalle mille foreste e dai mille corsi d’acqua. Fiumi, laghi, acquitrini, paludi. Un labirinto liquido che pareva potesse cambiare forma dalla sera alla mattina, per confondere ogni cosa, e divertirsi a giocare con i pensieri e con la mente di chi avesse tentato di attraversarlo. Fino al punto da spingere i cartografi a chiedersi se le loro mappe sarebbero rimaste ancora coerenti il giorno successivo, o se tutto non fosse stato invece da ridisegnare e da ricalcolare. Il solo pensiero che uomini e animali fossero stati inviati ad attraversare quelle terre, che non finivano certo a San Pietroburgo, Mosca o Saratov, ma che anche dopo gli Urali sarebbero continuate verso oriente all’infinito, mi diede un senso di angoscia.
Mi parve quasi di vederli, quei disgraziati, mentre affondavano nel fango alla ricerca di un nemico che non c’era. Appena arrivati e già sconfitti da miasmi, febbri, dall’odore delle feci e da un esercito di insetti che li avrebbe attaccati giorno e notte, divorandoli senza tregua, mentre l’inverno, paziente, si lisciava i baffi osservandoli marciare.
Venite, avanzate, miei prodi, pareva quasi sussurrare a quegli uomini persi nei campi, incitandoli a continuare quella corsa verso il nulla con promesse di donne, vodka e caviale, di palazzi da Principi sempre illuminati a giorno. Li attendeva, per accoglierli e abbracciarli, con tale forza da non lasciare più che potessero liberarsi. Sarebbero entrati a far parte del bianco, che già agli inizi di novembre avrebbe ricoperto e amalgamato tutto. Un monocromo talmente perfetto da rendere persino impossibile distinguere il cielo dalla terra. Armate sepolte dalla neve, ormai immobili, nel silenzio spezzato solo da raffiche di vento e dagli echi lontani di animali affamati. Blizzard del nord e ululati di lupi in cerca di cibo.
Il pazzo non era più lo scemo del villaggio, quel personaggio un po’ strambo, ma innocuo e benvoluto da tutti. No, adesso sedeva sul trono, e veniva acclamato come Re, Imperatore, Divinità. Bow to the King. E nei suoi deliri di gloria, mandava uomini verso la morte a migliaia, con la stessa semplicità con la quale da bambino aveva gettato chicchi di riso a una festa di matrimonio. E loro erano andati, con la coccarda sul petto e cantando con il sorriso in volto. Felici e certi della vittoria, perché gli Dei sono sempre infallibili e non conoscono sconfitta.
Mi chiesi cosa si nascondesse sotto le melme che vedevo dal finestrino. Divise, baionette, ossa, ricordi personali. Tutta roba inghiottita dal tempo, sepolta dalle radici delle piante, lentamente sprofondata nelle viscere della terra. L’aereo ebbe un piccolo sussulto causato da una turbolenza improvvisa che mi fece aggrappare al sedile, come se quell’oggetto di plastica fosse stato la mia stessa vita. Guardai verso il basso un’ultima volta. E per un’ultima volta li vidi, quei miserabili, con le braccia gelate strette attorno ai tronchi di betulla e le dita spezzate dal freddo. A implorare perdono al Dio che avevano rinnegato e maledire l’uomo che gli aveva fatto credere di poterlo rimpiazzare.
Il risveglio dal sogno fu accompagnato dal segnale luminoso di ‘allacciare le cinture di sicurezza’. La discesa su Mosca stava iniziando. In quel momento l’aereo attraversava nuvole ancora cariche di neve e sorvolava catene di palazzi a venti piani. Atterraggio, controllo passaporti, e poi finalmente, aria, la prima sigaretta dopo molte ore. Nemmeno il tempo di finirla che mi ritrovo circondato dal solito gruppo di tassisti abusivi, e per sfinimento accetto una corsa verso il centro con un ragazzo caucasico di poche parole ma dalla guida alquanto sportiva. Un tragitto interessante, durante il quale scopro che all’imbocco della tangenziale, se presa a tutta velocità la barra si apre in automatico. Senza bisogno di pagare il pedaggio, nonostante le urla del casellante. E proprio vero che nella vita c’è sempre da imparare. In una ventina di minuti arriviamo in Piazza Triumfalnaya con una frenata che lascia qualche centimetro di gomme sull’asfalto, oltre al tipico odore di bruciato. Ringrazio, scendo dalla macchina, pago il doppio di quello che mi sarebbe costato un taxi con licenza regolare. Pazienza, non si vive di rimorsi ed evidentemente la carica di adrenalina non era compresa nel prezzo standard.
Tverskaja, Arbat, Stagni del Patriarca, le mura del Cremlino. La mia Mosca racchiusa nei luoghi e nei versi di Bulgakov, nelle righe de Il Maestro e Margherita. Ai bordi dello stagno cerco il gatto nero Behemoth, ma trovo solo un esercito di instagramers intenti a fotografarsi e autocelebrarsi in una gara di bellezza ed eleganza senza vincitore, nella quale è difficile comprendere la finzione dalla realtà. I letterati un po’ goffi e i venditori sovietici di bibite e granite sono stati sostituiti da giovani dal viso rifatto e centri estetici all’ultimo grido, in una battaglia nella quale Narciso sembra avere definitivamente sconfitto Ares. E se cosi fosse per davvero, allora ben venga anche un ritocchino o un filo di botox. Ma anche questo e solo un sogno, perché le schiere armate ci sono eccome, anche se non si vedono.
Non riesco ancora a trovare la Russia, e decido di spingermi più in là, forse solo per seguire quell’istinto che ci porta a vedere cosa si nasconde oltre la collina. Salgo su un treno per andare più a est, più a nord. Lungo i binari un panorama piatto, monotono, ma allo stesso tempo affascinante, ipnotico. Campi ricoperti di neve, isbe, boschi di betulle. E infine Jaroslavl’, il suo piccolo Cremlino, la Cattedrale della Dormizione della Vergine, la Chiesa del Profeta Elia. L’ortodossia che ti circonda e si lascia respirare a pieni polmoni.
Fermo sulla riva del Volga ghiacciato, sento di avere raggiunto il limite. Andare oltre sarebbe un viaggio per il quale non sono ancora pronto, per il quale forse non lo ero mai stato. L’oro delle cupole delle chiese e delle cattedrali risplende nel bianco, si riflette sulla neve. Al di là del fiume e già Oriente. Mi accendo un altra sigaretta e assieme al fumo aspiro il freddo di un pomeriggio di marzo. Dalle sabbie del Baltico alla riva del Volga, in un tensione perenne di linee, confini, lingue, tradizioni e religioni. Territori con storie cosi dissimili eppure cosi condivise. Anche questa e Europa.
Cover: Mar Baltico
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Vittorio Sandri
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