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Veniamo a sapere da stampa e tv che il sindaco di Riace, Domenico Lucano, è messo agli arresti domiciliari, il 2 ottobre scorso, perché la magistratura gli contesta alcuni reati, fra i quali l’affidamento diretto del servizio di raccolta rifiuti, invece di una gara d’appalto, e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Immediatamente interviene sulla vicenda lo scrittore Roberto Saviano in difesa del sindaco e di un modello di accoglienza e integrazione dei migranti, indicato come esemplare per il suo alto valore umano.
Alla voce di Saviano si aggiungono quelle di autorevoli firme e di parte della sinistra, del mondo ecclesiale, associazioni, persone. Si moltiplicano le manifestazioni a sostegno del sindaco e in difesa di quel modello d’integrazione sociale, posto sotto attacco da un clima ormai irrespirabile di intolleranza, la cui fonte è riconducibile alle politiche del governo del cambiamento e, in primo luogo, al ministro dell’Interno, Matteo Salvini.
Il cartello con la scritta: “Il mondo lo adora, l’Italia lo arresta”, issato durante la manifestazione a Riace sotto casa del sindaco, il 6 ottobre, esprime bene la sintesi di questa ondata di protesta.
Un attacco, questo è uno dei punti, cui presterebbe il fianco anche la magistratura, con il provvedimento emesso nei confronti di Lucano.
Qui si apre un primo punto della questione: se, come si legge ovunque, fra il giudice per le indagini preliminari e la procura di Locri non c’è accordo su quali reati siano effettivamente da contestare a Domenico Lucano, tanto che lo stesso gip avrebbe scritto che l’indagine condotta da procura e Guardia di Finanza presenterebbe “congetture, errori procedurali, inesattezze”, questo significa in effetti che un problema c’è.
Allo stesso modo, sono sbalorditive le dichiarazioni rilasciate a caldo da un ministro dell’Interno che, senza alcuna sentenza, apostrofa il comportamento di un rappresentante delle istituzioni, sulla base di un’indagine giudiziaria in corso e su cui gli stessi livelli della magistratura devono chiarirsi su quanti e quali reati sarebbero stati commessi.
Il problema numero due è che lo stesso ministro sovrappone continuamente il livello istituzionale con quello di leader politico, per cui non è più chiaro quale sia l’azione di governo e quale la campagna elettorale.
E se questo comportamento è per molti normale, significa che decenni di analfabetismo istituzionale di chi si è ritenuto classe dirigente stanno purtroppo presentando un conto salatissimo.
Desta tuttavia non meno stupore il moltiplicarsi di manifestazioni a sostegno del sindaco calabrese. Non tanto per l’espressione di solidarietà e affetto nei confronti di una persona che è il simbolo di un modello civico da togliersi il cappello, in una terra, la Locride, infestata dalla piaga della criminalità organizzata, quanto perché – così si è sentito da più parti – quel modo di agire va difeso senza se e senza ma perché a fin di bene.
Perché, in ogni caso, è un esempio di convivenza, come ha detto Saviano, studiato in tutto il mondo.
Ci può essere tutto il consenso che si vuole su quel “a fin di bene”, ma siamo sicuri che un rappresentante delle istituzioni possa non rispettare le leggi, sia pure per uno scopo sacrosanto?
Perché se il sindaco di Riace non rispetta le leggi, per quanto contestabili esse siano, è un attacco a un esempio di civiltà, mentre se il sindaco di Verona decide di non rispettare la legge che riconosce il diritto di aborto è un oscurantista?
Se si esce dallo stato di diritto, al quale tutti i cittadini decidono di sottostare compresi tutti i livelli istituzionali (nonostante i pessimi esempi, proprio istituzionali, ai quali abbiamo assistito negli anni), chi può ergersi a giudicare se il mancato rispetto della legge è “a fin di bene”?
E’ forse la volonté générale di Jean Jacques Rousseau che, molto prima della Piattaforma dei Cinquestelle, gli studiosi hanno additato come l’anticamera dei poteri assoluti, perché, prima o poi, qualcuno pretende di parlare e agire in nome e per conto del popolo?
Se poi si ammette che per governare le regioni del Mezzogiorno o si forza la mano oppure è impossibile raggiungere risultati di buona amministrazione, non si finisce per esprimere la condanna che il Sud Italia sia un irrimediabile Far West?
E tutti gli altri sindaci calabresi, siciliani, campani e pugliesi, che ogni giorno, tra milioni di difficoltà, cercano di fare del loro meglio, facendo i salti mortali pur di rispettare un quadro normativo che, in più di un caso, pare scritto da chi ha problemi con l’alcol?
Per non dire di chi, in tanti, hanno dato la loro vita perché, come direbbe il commissario Montalbano, chi di dovere sapesse che anche in Italia “tanticchia di legge c’è; tanticchia, ma c’è”.
Ognuno è libero di intonare la canzone che vuole, ci mancherebbe, ma cantare “O bella ciao” sotto le finestre di Lucano si rischia un’operazione di assuefazione rispetto a un contesto su cui occorrerebbe fare dei distinguo.
Se Resistenza e partigiani giustamente si ribellarono, lo fecero nei confronti di un regime che era totalmente altro rispetto a un sistema di garanzie democratiche. Qui, grazie al cielo, le garanzie democratiche, per quanto minacciate, esistono ancora e ogni sforzo andrebbe fatto per conservarle e, se possibile, rafforzarle.
Nella sala dei Nove di Palazzo Pubblico a Siena (cioè la sala di chi governava la città) c’è il grande, stupendo, affresco di Ambrogio Lorenzetti del Cattivo e del Buon Governo.
Nella parte del Cattivo Governo il tiranno è seduto in trono e sotto di lui c’è la Giustizia, legata e costretta ai piedi del potente.
La tirannide – questo l’eterno e geniale monito – avviene quando il governante si pone sopra la giustizia, la legge.
La conseguenza è che tutto cade in rovina.
Sulla parete di fronte, chi governa è raffigurato sullo stesso piano delle virtù, fra le quali c’è la giustizia, e il simbolo del suo comando è portato con una corda da una schiera di cittadini.
Così, nella città e nei campi del Buon Governo regna su tutti la securitas.
Il capolavoro di Lorenzetti è un insuperato avvertimento rivolto a chi aveva in mano le redini di Siena. Una sorta di Cappella Sistina laica, se si pensa all’analogo monito che Michelangelo osò lanciare col suo strabiliante Giudizio Universale ai cardinali nell’aula in cui, ancora oggi, eleggono il papa della Chiesa cattolica.
Bisognerebbe organizzare delle visite guidate al meraviglioso affresco senese (altro che i secoli bui del Medioevo), per chi avesse ambizioni di classe dirigente.
Dunque, occorrerebbe decidersi se si vuole stare dentro lo stato di diritto, se cioè si preferisce la forza della legge – per quanto imperfetta e riformabile – alla legge della forza.
Indipendentemente dalle migliori intenzioni.
Dopodiché l’auspicio di tutti è che, nel caso concreto, il sindaco Domenico Lucano possa dimostrare di avere operato per il bene comune e nel rispetto della legge, perché se si inizia a scindere le due cose la storia dimostra che sono guai.
D’accordo che Ennio Flaiano definì la situazione italiana “grave ma non seria”, ma non sarebbe male astenersi dall’inseguire chi in questi anni ha dato il pessimo esempio di agitare le tifoserie per contestare un potere dello Stato – la magistratura – perché non eletto dal popolo.
Se è interesse di tutti che il modello di Riace possa continuare a essere un punto di riferimento, lo è altrettanto il rispetto della legge.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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