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racconti e poesie di Marco Chinarelli

A forza di tacere…

A forza di tacere era diventato muto.
Muto esattamente come un pesce, ma a differenza di questi incapace di emettere le bollicine colorate che dilettano i bimbi in visite a certi acquari illuminati da proiettori.
Meglio che muto sarebbe dire incastrato: il canino di destra dolorosamente scheggiato su un premolare nella convulsa consegna psichica di mantenere la bocca chiusa. I due mascellari, inferiore e superiore, dolorosamente contrati in una smorfia indecifrabile, gli vennero separati a viva forza dopo somministrazione intensiva di farmaci anticonvulsivi. L’esplorazione del palato e del cavo laringo – faringeo, non poté che constatare l’avvenuto deterioramento degli organi della fonazione ormai in stato di atrofia.
Con una punta di malinconico rammarico, l’infelice non poté evitare di rimproverarsi l’aver trascurato i primi segni premonitori di quello sciagurato processo morboso iniziato molto tempo prima: periodiche contratture, appunto, delle mandibole, prive di spiegazione plausibile e nelle quali l’emissione del suono gli era resa roca o sibilante.
Altrove, in assenza di questi fatti spastici, fenomeni più propriamente psichici quali, ad esempio, un temporaneo incepparsi (questa è la parola esatta) dell’eloquio in corrispondenza a parole quali… ma anche…
Una autentica collezione di parole “tabù” che l’infelice era costretto ad evitare, faticosamente sostituire con equivalenti, succedanei, con risultati catastrofici sulla scioltezza e sulla qualità del suo discorso… considerato che questa collezione di parole impronunciabili si allargava lentamente a macchia d’olio fino a costituire una vera fungaia di ostacoli tra i quali la sua lingua, avventurosamente, rotolava suoni, come palline da biliardo.
(inedito)

In pausa mensa…

L’unica cosa che sapeva fare era abbattere un passero con un colpo di fionda.
Al tavolo della mensa, parlava a Francesco di quando anni prima era stato in Russia con un contratto stagionale della C.E.I. e a Leningrado aveva comprato una macchina fotografica a pozzetto. Rideva come un coniglio con i denti in fuori e guardava nel vuoto con lunghi silenzi stuporosi e tristi a labbra socchiuse.
Mentre si avviavano alle macchine, dopo una pausa, gli aveva confidato che dipingeva. A Francesco erano venuti alla mente i dipinti che gli aveva mostrato Hermes, l’anziano psicotico incontrato in Ospedale. Sopra la porta della camera da letto, una macchia crostacea bianca raffigurava l’airone su un fondo ossessivamente blu violaceo che a Francesco aveva ricordato certi acquerelli di bambini caratteriali visti nelle sue visite di tirocinio alle scuole elementari.
L’amico romagnolo lo apostrofava a braccia conserte, ogni volta che alzava un bicchiere di vino. Sempre con stessa bonaria invettiva.
Lui alzava le spalle con quello stanco sorriso di coniglio.
Quella rassegnata consuetudine che si stabilisce in certi degradati rapporti di amicizia.
(inedito)

Senza titolo

“Questa sera lasciatemi in pace
perché la poesia mi ha lasciato.
Questa sera lasciatemi solo
perché i vostri volti mi rattristano
abbandonato e solo voglio restare
Non preoccupatevi per me
e non pensate di dovermi aiutare
Come potreste?
La poesia mi ha lasciato solo
Essa è una solitudine con gli occhi
di smeraldo
La solitudine invece
sa solo di neon e di asfalto.”
(inedito)

Senza titolo

Ovunque sia
il sole mi prosciuga
catafratto di orgoglio
di ferro e basalto
Non ho vita
entro di me
né profondità alcuna
Fronteggio immobile
la paziente mareggiata
che, lenta, mi sgretola, mi rovina
I nostri morti
fradici
nella terra li tormenta
la pioggia
Me
tormenta
umida e indecifrabile
la Luna.
(inedito)

Senilità tardo-capitalistiche

A che serve
questo mattino di luce
cui tendo le palpebre grinzose
cui la notte
non ha dato giovinezza

in questo mattino di luce
nessuno più mi attende
nessuna cosa ho da compiere
Fisso gli occhi nel cielo
vecchio.
(inedito)

Tomà (amicizia alcool)

La mia gatta bruna
non ha
riflessi al neon
nelle notti di luna
Brontola il gas, nella stufa
Se spegni la luce
è buio completo
di bitume
Poche luci, lontane
gridano la solitudine, vivente
della città.
Al turno di notte starà
il mio amico, biondo,
dalle folte sopracciglia
Tomà.
Io sono morto.
Tomà
si spolvera i capelli
bianchi di polvere
Tomà
io lo guardavo
seduto su un sacco di juta
e colmo di farina
Tomà preme la leva dello scarico
Tomà afferra il fiasco
e il suo pomo d’adamo
si agita, nel collo roseo
ingrigito
dalla prima barba di adolescente
Così, fra i giovani e i vecchi
Saltava fuori il mazzo delle carte
E, accanto a me il capoturno
Gridava al due di coppe,
si inarcavano le sopracciglia
indecifrabili dell’orologio
Grigi, eravamo
di polvere e di amore deluso
in quel sole morente
che ci illuminava all’uscita
di ogni turno
Io e Tomà
Come i piccioni impazziti
che vanno a morire
nella polvere delle cocker
fingendo, per dignità
che siano a cercare vermi
negli scarti del grano
Così uscivamo, parlando
caldi di sonno arretrato
fra una folla di teste lunari
Ma io ero morto
E Tomà parlava per me
e Tomà parlava dei suoi sogni arretrati
e Tomà urlava
e Tomà cantava
Agitando quei suoi capelli lisci
quelle sue ossa acute
Io ero morto.
Tomà,
come un piccione bianco
nella semina ocra
cantava ai suoi piccoli
l’odio, eterno,
per la camicia bruna,
del falciatore

Ci rivedremo
Tomà
al prossimo turno
che ci unirà
E intanto accarezzo
con dita febbrili, il grilletto
della notte
e della luna pallida
e ti mostrerò i mille appunti
stesi sul pelo lucente
della mia gatta bruna.
(inedito)

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