A teatro l’abominio del fascismo e il tragico silenzio degli indifferenti
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Le parole dei conniventi, il silenzio degli indifferenti. Per entrambe il medesimo biasimo e un’uguale condanna. Fabrizio Gifuni ha portato sul palco le nefandezze del fascismo e la sua deriva razzista. L’opera è scandita da cinque emblematici momenti di rappresentazione racchiusi fra prologo ed epilogo: gli anni del manganello, arte e religione, questione di razza, gli anni dell’impero, l’abominio.
A far da filo conduttore a “Gli indifferenti, parole e musiche da un ventennio”, in scena al Teatro comunale di Ferrara sino a domani (sabato 21), sono appunto testi scritti da epigoni del regime, con il contrappunto delle parole degli oppositori. L’incipit è di Raffaello Ramat, critico letterario che nell’agosto del 1943, all’indomani del Gran Consiglio del fascismo che esautorò Benito Mussolini ma prima del tragico 8 settembre, riferisce di una situazione “non so più se tragica o grottesca in cui milioni di uomini acconsentirono di obbedire ad un branco di ladri e di avventurieri sapendo che essi erano avventurieri e ladri, e non riuscivano a sperarne la liberazione se non da forze esterne a loro. Bisogna dire chiaramente che di questo avvilimento generale una classe sopra a tutte è responsabile: quella degli scrittori. Invito i giovani a rileggere i giornali degli anni scorsi e a fare raccolta di pagine di viltà: ma non per riderci, si per piangerci sopra”.
Il servilismo richiamato da Ramat è demolito da un incisivo epitaffio coniato da Arturo Toscanini (costretto all’esilio per avere rifiutato di eseguire uni degli inni fascisti, Giovinezza) per spiegare che “la schiena curva è conseguenza di un’anima curva”. La viltà dell’indifferenza è stigmatizzata con disprezzo da Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti”.
Fra il prologo di Ramat e l’epilogo di Gramsci è contenuto l’atto di accusa del fascismo, basato principalmente su un collage di parole pronunciate dai suoi compiacenti servitori, complici del regime e perciò colpevoli dei suoi abomini: intellettuali, docenti universitari, musicisti, artisti, magnificamente interpretati da Gifuni che dello spettacolo è anche regista. Ed ecco idealmente sfilare in parata, evocati dalle letture dal palco e accompagnati dalla musica del pianoforte di Luisa Prayer e dalla voce del mezzosoprano Monica Bacelli, il maestro d’opera Pietro Mascagni, il pedagogista Giovanni Gentile (per il quale parole e manganello sono strumenti egualmente validi per persuadere le coscienze della bontà d’un concetto), Guido Visconti di Modrone, un giovane e sprezzante Indro Montanelli e una moltitudine d’altre tristi anime curve.
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Sergio Gessi
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