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A me Battiato ha fatto chiedere cosa fosse la Patria, anni ’90, periodo delle autobombe, io bambino siciliano, di famiglia militante antimafia.
Fisiognomica e altri album mi hanno fatto domandare e sentire quanto fossi vicino a popoli del sud e dell’est del mediterraneo. Una Sicilia che è sempre stata terra di molti popoli, la stessa che in queste decadi istupidite (e non da sola) dagli schermi, dal tutto fatto e pronto, forse va perdendo questi suoi millenari attributi. Battiato faceva concerti ballando su tappeti persiani, danzava danze di quelli che oggi crediamo barbari del sud, meditava nei deserti (non riducendo il mondo a un idiota scontro di civiltà).
Battiato dava suono ai suoni e agli ambienti della terra nostra, di altre terre vicine, oltre che del sintetizzatore e della propria mente.
A 16 anni, investito da un motorino, investivo l’obolo dell’assicurazione così: una bicicletta, un mucchio di rullini fotografici e quasi tutta la discografia di Battiato disponibile all’epoca (poi lentamente ma piacevolmente dispersa tra i vari amici che la chiedevano, più o meno esplicitamente, in prestito). Così ho avuto modo di ascoltare quasi tutto, dai primi pezzi elettrizzanti incomprensibili e cacofonici, a quelli più orecchiabili e (diciamo) “intuibili”. Per cui su tutte le conversazioni che avevamo da adolescenti, soprattutto nelle estati calde, ormai bolognesi, traboccavano delle citazioni da Battiato.
Il trascorrere del tempo e delle cose ha ridotto di molto la mia disponibilità ad ascoltare i suoni della natura, degli ambienti, e ad apprezzare la morbidezza della loro comunicazione, umana, animale, ambientale. Al suo posto è entrato, non un sintetizzatore, ma un linguaggio macchina, che oggi permea la vita dei più, e sta rimodellando, nostro malgrado, il nostro modo di sentire. Dove il modello di riferimento è qualcosa di digitale, discreto (in senso matematico), poco sfumato, prevedibile e ordinato. Per via del tempo dato alla riflessione, nel tempo musicale, Battiato è per me un simbolo in controcorrente.
Una volta (decisamente prima della moda dei vinili) incredibilmente trovai una copia usata in vinile di Giubbe Rosse. Album specchio del mio sentire di giovane catanese (…e le lucertole attraversano la strada…). La regalai a una ragazza di cui ero innamorato.
Da quarantenne discreto, ordinato e razionale, potrei dire che è una cazzata, perché se piaceva a me non vuol dire che piacesse a lei. Ma è nei tempi morti, nelle sfumature, nel mistero che non abbandona il proprio spazio all’efficienza che possiamo contemplare, la natura dentro e intorno a noi, il sentire, le emozioni.

cover: Franco Battiato al Festival Gaber, 2010 (wikimedia commons)

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Francesco Reyes


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