A Ferrara la cultura sembra diventata un affare di famiglia. Giuseppe Antonio Ghedini da Ficarolo è stato un pittore di un certo valore, attivo nel diciottesimo secolo. Da quello che leggo, Ghedini donò alla Biblioteca Ariostea di Ferrara trentuno disegni, risalenti al 1736, anno in cui era già a Venezia. Questi disegni sparirono dalla Biblioteca per riapparire dopo centinaia di anni nel negozio di un antiquario milanese. Amici della Biblioteca Ariostea, Amici dei musei e dei monumenti ferraresi, Ferrariae Decus e Deputazione di Storia Patria, nell’ottobre 2020, contattarono il Comune di Ferrara per consigliarne l’acquisto. Il valore stimato era di 20mila euro e le stesse associazioni si resero disponibili a fare una colletta per contribuire all’acquisto. Sorvolo sulla misteriosa sparizione dei disegni da un ente pubblico e sulla loro altrettanto misteriosa ricomparsa presso una bottega privata: credo che nel mondo dell’arte, dopo più di duecento anni, ipotizzare un reato di ricettazione sia impossibile, se non altro per l’impossibilità non di immaginare, ma di dimostrare la provenienza delittuosa (ad esempio il furto) di quelle opere, che potrebbero essere nel frattempo passate per chissà quante mani. Più difficile è sorvolare sulla condotta torpida dell’assessore alla Cultura Gulinelli, che, citiamo dall’articolo di estense.com (https://www.estense.com/?p=909149): “dopo lunghi silenzi e ripetute sollecitazioni”, fa sapere (in aprile 2021) che l’amministrazione sta “valutando anche la possibilità di acquistarli non direttamente ma attraverso una Fondazione privata che li donerebbe al Comune e questo agevolerebbe le procedure tecnico amministrative trattandosi di un antiquario privato”. E quale sarà mai questa fondazione? Se un bookmaker avesse deciso di quotare le probabilità che non si trattasse della Cavallini-Sgarbi, uno scommettitore che avesse puntato un euro ne avrebbe potuti vincere diecimila. Virtualmente, in quanto le probabilità che non si trattasse di quella fondazione erano simili a quelle che il razzo cinese cadesse su Ferrara. Infatti Vittorio Sgarbi, in occasione della presentazione del rinnovato e restaurato Palazzo Schifanoia, ha svelato l’inesistente arcano, affermando che la Fondazione di famiglia ha acquistato i disegni per poi prestarli al Comune, anzi al museo Schifanoia stesso, per una esposizione ad alto tasso di tecnologia, mentre se li avesse presi il Comune per rimetterli alla Ariostea, quei disegni sarebbero finiti dentro uno scrigno, invisibili ai più.
Rimane un mistero (questo sì) l’assioma secondo il quale il Comune non potesse fare la stessa cosa, ovvero rendere fruibile l’opera dopo esserne divenuto proprietario, invece di farsela prestare da una fondazione privata, intestata all’attuale Presidente di Ferrara Arte, che potrà deciderne il trasferimento altrove. A discrezione ed a spese di chi saremmo pronti a scommettere, consci che la quota di vincita stavolta sarebbe misera: a discrezione della fondazione, a spese del Comune. Questo almeno era lo schema originario della convenzione tra fondazione e Castello Estense sull’utilizzo della collezione privata in mostra al Castello stesso: una robusta percentuale degli incassi (compresi quelli di chi voleva solo visitare il castello e non la collezione) a favore della famiglia Sgarbi, tutte le spese (comprese quelle di eventuali trasferimenti dell’esposizione) a carico del Comune.
Il problema non è tanto (o non solo) la nuova filosofia della politica culturale a Ferrara, fatta di molte ombre (tra tutte, l’azzeramento della prestigiosa gestione delle mostre ai Diamanti in favore di pacchetti preconfezionati non originali e riproposti in mezza Italia) e qualche luce (Schifanoia?). Non sono scandalizzato dal “traffico di influenze” esercitato da Sgarbi per portare alla direzione del Teatro Moni Ovadia, almeno fino a che la sua libertà artistica e creativa potrà dispiegarsi in piena autonomia. Qualche dubbio sull’autonomia in effetti viene, pensando alla turbolenta conclusione dell’esperienza da Presidente del Teatro di Mario Resca. Tuttavia il percorso del Teatro si apprezzerà vedendone il cartellone e misurandone la qualità della proposta artistica. Non sono nemmeno sorpreso o, peggio, indignato per l’ingombrante ed egotista presenza di Sgarbi, che si sta prendendo la rivincita da “profeta in patria” dopo anni in cui i tentativi di collaborazione con il Comune sono falliti, o sono stati coronati da modesto successo (la mostra della collezione privata in Castello, sotto la vecchia Giunta, ha staccato molti meno biglietti del previsto). Uno come Vittorio Sgarbi non può che fare l’assessore alla cultura de facto: sotto questo aspetto, la scelta di assessore di diritto non poteva che cadere su un amico dimesso, dal profilo impalpabile, patetico nel ruolo di spalla dello Sgarbi sarcastico e veemente, tanta è la differenza di temperamento che ce lo fa quasi apparire un tenero e disadattato prestanome. Quello che disturba e reclama una attenzione anche formale è il costante conflitto di interessi tra il ruolo pubblico e quello privato, come se tutto quanto viene proposto alla cittadinanza dovesse risultare frutto di una “concessione” o di un “prestito” (non gratuito) della famiglia al popolo, con il Comune a fare addirittura da procacciatore d’affari, come nel caso dei disegni di Ghedini. A Ferrara la cultura sembra essere diventato un affare di famiglia. Sempre la stessa.
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Nicola Cavallini
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