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di Silvia De Santis

«Spogliamoci dell’aneddotica, del racconto, del film. “La ragazza con l’orecchino di perla” non ha una storia: è solo un volto che Johannes Vermeer ha consegnato all’assoluto del tempo». Il monito di Marco Goldin – curatore della mostra “Da Vermeer a Rembrandt” – è un farmaco contro il “feticismo” dell’opera d’arte. La ragazza con il turbante color cielo «non va guardata come un’icona pop. In questo quadro tutto vive dentro una sorta di silenzio crepitante, che chiama ognuno di noi verso il luogo dell’assoluto», continua l’organizzatore di mostre, che ha intercesso per la città affinché la Ragazza concludesse il suo tour a Bologna. La mitizzazione è il rischio che corre una delle tele più amate al mondo: a farle concorrenza solo la Gioconda di Leonardo Da Vinci e l’Urlo di Munch. Che per ora sono avversari lontani. I 100mila visitatori che attendono di vederla saranno a Bologna (dall’8 febbraio al 25 maggio) per lei, che ha viaggiato solo due volte nella sua vita: per andare in Giappone, a Tokio e Kobe, e negli Stati Uniti. Dell’Europa conosce solo l’Olanda e, da qualche giorno, palazzo Fava, «che ha ricevuto i complimenti perfino dai due conservatori del Museo Mauritshius, fissa dimora del quadro: le luci che illuminano l’opera – hanno detto – sono in assoluto le più belle al mondo», rivela orgoglioso Goldin.

E ora è lì, la Ragazza, imperatrice di una sala che abita da sola. È del 1665, ma il tempo non lavora sul suo orecchino e sul turbante. La lascia illibata: lo sguardo e la bocca dischiusa si chiamano fuori dalla storia. Neppure l’invadenza di telecamere e flash, che in occasione del vernissage affollano il suo regno per carpirne i segreti, riescono a turbarla.

Protagonista della scena, l’avvenente fanciulla è un enigma che resta sospeso nell’aria. Non è un classico ritratto dell’epoca: la Ragazza sfugge alla pittura canonica della Golden Age che affolla le altre sale del palazzo. Se la ritrattistica, segno del fiorente commercio nella Repubblica olandese del Settecento, traccia un affresco di “classe” che si espande in altre cinque sale di Palazzo Fava – dalla “Suonatrice di violino” di Gerrit van Honthorst al “Ritratto di Aletta Hanemans” di Frans Hals -, la giovane con l’orecchino e il turbante ottomano si stacca parzialmente dall’hic et nunc, trascendendo la storia. Pur trattandosi di un “tronie”- genere seicentesco che tipizzava i volti assecondando le ambizioni del libero mercato borghese – «Vermeer rifugge la contingenza e ci consegna un elemento reale sublimandolo nell’assoluto della bellezza», precisa Goldin. Un atto di virtuosismo pittorico, insomma, che ha in sé il seme di quel principio dell’“arte per l’arte” che animerà l’estetismo nella seconda metà dell’Ottocento.

Accanto al capolavoro di Vermeer, per ben due anni corteggiato dalla città, trovano posto anche Rembrandt, con opere quali “Ritratto di uomo anziano” e “Canto di lode di Simeone”, Ter Borch, Van Goyen e altri maestri del realismo della Golden Age olandese. Un parterre che fa da anticamera al secondo piano di Palazzo Fava, dove l’occhio del curatore Goldin miscela il Seicento con il contemporaneo: “Attorno a Vermeer: I volti, le luci, le cose” raccoglie i tributi odierni di Enrico Lombardi, Piero Zuccaro, Cetty Previtera e di altri artisti stregati dal maestro olandese. «Perché questa esposizione è differente da tutte le altre, non teme commistioni. Ho sempre rifiutato la logica della mostra itinerante e anche questa volta ho cercato di distinguere il Vermeer di Bologna da quello di Tokio o San Francisco. Scompongo e ricompongo per realizzare combinazioni sempre diverse. Il che, onestamente, da venticinque anni a questa parte, mi ha sempre premiato», conclude il piazzatore di mostre.

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Redazione di Periscopio



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