di Giuseppe Giglio
«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Più volte le ho accarezzate con gli occhi, queste parole dello scrittore francese ottocentesco Villiers de l’Isle-Adam, sulla tomba di Leonardo Sciascia, a Racalmuto: incise sul bianco e nudo marmo, insieme al nome e alle date di nascita e di morte, così come Leonardo aveva fermamente voluto.
«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta»: un’iscrizione che, dice Gesualdo Bufalino, «non conta tanto come pezza d’appoggio d’una ipotesi di sopravvivenza, ma ribadisce un sentimento di distacco ironico e dolente insieme. Questo pianeta, cioè, con le sue abiezioni e dolcezze, quanto dovrà apparirci estraneo, da una remota nuvola, e tuttavia oggetto d’una insopprimibile volontà di memoria…».
Ecco, la volontà di memoria, il pensare, il voltarci indietro: è questo l’ineludibile richiamo che ci resta, dopo un incontro con la pagina di Leonardo, sia essa di un romanzo, di un saggio, di un articolo di giornale. E da quella pagina sempre balzano la gioia, la felicità dello scrivere: anche quando si tratti di cose terribili, se non angosciose. «Non faccio nulla senza gioia», diceva Montaigne. La stessa gioia di Luciano, di Stendhal, di Savinio. La stessa gioia di Leonardo Sciascia: che è poi la gioia degli scrittori veri, dei cercatori di verità.
C’è un’immagine di Sciascia, che amo più di altre: questo ritratto fotografico di Nino Catalano, che di Leonardo custodisce un’espressione (lo sguardo acutissimo, di profonda serenità, così pieno di dolcezza) tra le più emblematiche, tra le più cariche del suo destino – e del suo cammino – di uomo e di scrittore. L’uomo e lo scrittore meravigliosamente coincidenti, in un’instancabile, ostinata, gioiosa ricerca di verità e d’amore, nel vivere e nello scrivere. O, meglio, e pirandellianamente, nel vivere scrivendo e nello scrivere vivendo. Delle verità della vita, e dell’amore per l’uomo, ben oltre il tempo che gli è toccato in sorte: a lui che era già un classico da vivo, con le sue storie che dal tempo narrato si affacciavano, e si affacciano, sulle menzogne e sulle inquietudini, sulle ferite e sugli inganni di sempre, quelli cioè che appartengono all’umana natura. Uno scrittore è memoria, ripeteva Sciascia: la memoria individuale, cioè, che tenendosi in esercizio si salda alla memoria collettiva, alla Memoria. E il ricordare, per lui vigile e volontario, si faceva proficua ossessione, lanterna preziosa: a mostrare da dentro il mistero del vivere, la sua bellezza, la sua miseria.
C’è ancora molto da dire su questo Sciascia, che ha in sé tutti gli altri (il polemista, il moralista, il palombaro dei mali italiani, il difensore della giustizia giusta, del diritto, della ragione).
Su questo Sciascia che nel 1961, scrivendo di Simenon, tirava in ballo Gogol e Čechov (tutti e tre a lui, a Leonardo, molto cari): «Gogol e Cecov: lo scrittore che vede e lo scrittore che ama. E il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon: qualità che permettono allo scrittore di giungere alle verità dell’uomo come a Maigret permettono di giungere alla soluzione di un caso. Il metodo di Maigret per giungere alla soluzione di un mistero poliziesco praticamente si ripete in tutti i romanzi di Simenon: è la tecnica narrativa di Simenon, il suo modo di ordinare la realtà, di darle un senso, di collegare le cause agli effetti, di far scaturire dal mistero la verità. Maigret vede: vede perché ama. Non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini quanto Maigret. Non c’è, dopo Čechov, scrittore che ami così profondamente, così minutamente, così religiosamente la vita e gli uomini come Georges Simenon. Ci sarà magari in lui qualcosa di mancato: sarà un Gogol mancato, un Čechov mancato: ma è certo uno degli scrittori del nostro tempo più vicino alle ragioni umane, all’uomo così com’è».
Parlava di Simenon, Sciascia, del suo vedere e amare la vita e gli uomini. E le pagine – da A ciascuno il suo a La scomparsa di Majorana, da Todo modo a Il cavaliere e la morte, fino a Una storia semplice, per non dire delle narrazioni saggistiche, o di quelle in forma di articolo di giornale -, le pagine che egli, Leonardo, ci avrebbe lasciato inverano il sospetto che lo Sciascia di allora, tra le righe, dicesse anche di sé. E se i libri sciasciani resistono al tempo, se essi continuano a cercare e a trovare nuovi lettori in tutto il mondo, lo si deve proprio alla loro innata, sobria, affilata classicità: a quella capacità, cioè, di restituire lo spirito del tempo e contemporaneamente il tempo di tutti, quello dell’uomo di sempre.
Ne viene fuori, insomma, dalle tante storie sciasciane, la vita, il suo complicatissimo cruciverba: del quale il loro autore ha incessantemente scandito le intricate ascisse e ordinate. Non tanto a trovarne un’improbabile soluzione, quanto ad illuminarne le latenti ambiguità, le verità non visibili; e impegnato, piuttosto, a dissolvere il caos del reale (non di rado prevedendolo) nel cosmo della letteratura, in quella nitida e ordinata «sintassi della vita, del mondo, dell’uomo, di tutti gli uomini». Ben consapevole, manzonianamente, della complessa, spesso oscura natura del vero, e insofferente delle banalizzazioni, dei dogmi, delle pietrificazioni ideologiche; oltre che della natura inquisitoriale del Potere. Chiedendo aiuto (senza restarne prigioniero) alla ragione e al cuore, e sempre sorretto dal dubbio, dal rovello. Contraddicendo e contraddicendosi, insomma, tra le irreprimibili apprensioni del vivere. Sciogliendo il rigore dell’intelligenza nella gioia della scrittura.
Di quello scrivere, di quell’italiano che era per Sciascia un incessante ragionare: «l’italiano non è l’italiano: è il ragionare», fa pronunciare Leonardo al vecchio professor Franzò (che tanto gli somiglia: nelle parole scarne e affilate, come nei borbottii e nei silenzi, con quella sua acutissima vista sull’uomo e sulle cose), in Una storia semplice.
E il «ragionare» si fa prezioso scrigno di memoria, di pensiero, di stile: scendendo e risalendo lungo una tradizione linguistica profonda di secoli, che ha dentro popoli e civiltà, scrittori di parole e scrittori di cose, per dirla con Pirandello; il cui ritratto fotografico Sciascia sempre teneva sulla scrivania, a Racalmuto come a Palermo. Di quello scrivere, ancora, che era anche per lui, per Leonardo, un desiderio, un sogno; come lo era stato per Giuseppe Antonio Borgese: «aspiro, per quando sia morto, ad una lode: che in nessuna mia pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto e malvagio».
«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». E non poteva che essere la memoria, la memoria che si fa verità viva, l’ultima parola di un eretico come Leonardo Sciascia, del quale quest’anno ricorre il centenario della nascita, con non poche iniziative (alcune già svolte, molte altre in programma) per celebrare Sciascia, tra cui quelle organizzate dalla Fondazione a lui intitolata e coordinate da Fabrizio Catalano, uno dei nipoti di Leonardo, anch’egli scrittore, oltre che regista.
La memoria, dicevo: quella stessa – sempre pronta a scoprire e riscoprire – che riecheggia nel titolo dell’ultimo (l’ultimo che Sciascia approvò, e il primo dei postumi) libro: A futura memoria (se la memoria ha un futuro); laddove in epigrafe risuonano le parole di Georges Bernanos che il grande intellettuale e scrittore siciliano ed europeo sentiva, e profondamente, anche sue: «preferisco perdere dei lettori, piuttosto che ingannarli». Quella stessa memoria, ancora, che innerva Il cavaliere e la morte, il giallo (genere da Sciascia prediletto: per scrutare l’uomo, e perché «presuppone l’esistenza di Dio») più di altri testamentario, e anche oggi di vivida attualità. Per quel terribile rigenerarsi dell’indegnità del mondo – del mondo umano: con i suoi veleni, le sue corruzioni, le sue guerre – di sé stesso, della vita, come anche per la fiducia e la speranza (di un mondo umano diverso, migliore, che ritrova e rinnova la sua umanità) che proprio nella scrittura e nella memoria continuano a risiedere, a germogliare.
«Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». E intanto leggiamolo, o rileggiamolo, Sciascia: perché ci dice chi siamo.
NOTE
L’articolo con il titolo Ce ne ricorderemo di questo pianeta, in forma più ridotta, è stato pubblicato l’ 8 gennaio 2021 (giorno del centesimo anniversario della nascita di Leonardo Sciascia) sulla rivista Letteratitudine
Giuseppe Giglio vive a Randazzo, sull’Etna. È scrittore e critico letterario. Collabora con quotidiani e magazine: da “La Sicilia” a “Letteratitudine”, a “Succedeoggi”. Si occupa soprattutto del Novecento, nel segno di un’idea di letteratura come conversazione sull’uomo e sul mondo, e di una critica letteraria come critica della vita.
Ha pubblicato, tra gli altri: I piaceri della conversazione. Da Montaigne a Sciascia: appunti su un genere antico (Salvatore Sciascia Editore, Premio “Tarquinia-Cardarelli” 2010 per l’opera prima di critica letteraria). Nel 2014 ha partecipato al volume Dieci registi in cerca d’autore. Cinema e letteratura: un amore difficile, di Amedeo di Sora e Gerry Guida (Cultura e dintorni Editore). È tra gli autori di Letteratitudine 3. Letture, scritture e meta narrazioni (LiberAria), a cura di Massimo Maugeri, uscito nel 2017: un manuale sulla lettura, un viaggio dentro le storie e le scritture di oggi
Sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia leggi su Ferraraitalia:
Sergio Reyes, UN ILLUMINISTA IN SICILIA : Attualità di Leonardo Sciascia a 100 anni dalla nascita [Qui]
Giuseppe Traina, DENTRO IL GIALLO : I personaggi di Sciascia e Simenon davanti al potere [Qui]
Roberta Barbieri, RICORDANDO SCIASCIA : Una storia semplice [Qui]
Rosalba Galvagno, IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE : La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo [Qui]
In copertina: Ritratto di Leonardo Sciascia – Foto di Nino Catlano
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