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di Jaime Enrique Amaducci*

In notturna, seguo le note seducenti e malinconiche del piano di J. W. Pollack che mi rapisce con My Funny Valentine, mentre la mente e il cuore sono scossi dall’attualità delle parole di Mario Lodi… e dal risentimento di chi sostiene, convinto, che la deriva della scuola italiana sia il “prevedibile esito di decenni nei quali le chiavi della scuola sono state consegnate alla pedagogia, che l’ha portata fin sull’orlo del baratro di una completa inutilità” (F. Lavezzi, “Oppressa da genitori e scartoffie un’inutile scuola sull’orlo di una crisi di nervi”, in www.ferraraitalia.it).

Come si può cogliere da numerosi documenti elaborati a livello internazionale (nemo propheta in patria…) Mario e tanti altri pedagogisti italiani hanno scrollato dalla polvere ultradecennale e ispirato la ricerca a livello nazionale ed internazionale. L’idea che sta alla base di una scuola inclusiva è uno dei tanti esempi del valore dell’italica pedagogia che, nella maggior parte dei casi, è stata lasciata fuori dalle porte delle scuole… tenuta ben lontana dalle aule, conservata nelle pagine di libri al massimo utilizzati per superare concorsi, per riempirsi la bocca durante gli aulici discorsi celebrativi o per imbastire strumentali campagne elettorali.
“Una scuola inclusiva deve fornire possibilità e opportunità di applicare diversi metodi di lavoro e il trattamento individuale è realizzato in modo che nessun bambino sia escluso dalla comunione e partecipazione a scuola. Questo comporta la creazione di scuole a misura di bambino e si basa sui diritti fondamentali. Un’educazione basata sui diritti fondamentali, aiuta i bambini a esercitare i loro diritti. Non solo efficiente da un punto di vista accademico, ma è anche comprensiva, sana e protettiva per tutti i bambini, tenendo conto delle disparità tra uomini e donne e incoraggia la partecipazione degli studenti stessi, le loro famiglie e le loro comunità”. (Policy Guidelines on inclusion in education, Unesco, Paris, 2009, p.16)
Una scuola inclusiva è una “[…] scuola decisa a partire dai bambini, in cui tutti i ragazzi rappresentano casi particolari: tutti hanno le proprie esigenze, la propria storia, insomma la propria diversità”. (M. Lodi, 1982, p. 84). Una scuola “trasmissiva” è fondata sulla esclusiva trasmissione delle conoscenze “da chi sa a chi non sa”, in cui “gli scrutini finali di ogni anno e gli esami sono la verifica del livello raggiunto e dei contenuti imparati e memorizzati (p. 85)”. In ogni ordine e grado è ben radicato questo tipo di scuola in cui, a tutti gli effetti, non c’è posto per il diverso poiché “vi è entrato come eccezione, è stato accettato per spirito umanitario e non, come dovrebbe essere, per una precisa scelta professionale e pedagogica (p. 88)”.
Nella vision della scuola trasmissiva, il diverso che esplicita bisogni educativi speciali “fa perdere tempo […] causa una rottura, una violazione delle regole […] sottrae tempo agli altri ragazzi. […] “Una complicazione di questa scuola è la presenza di ogni tipo di diversità. […] Questa è una scuola di uguali per uguali che parte da livelli ipotizzati uguali e tende a livelli ipotizzati uguali. Chi non ce la fa si ferma, anzi è fermato”. Ma di fronte ai bisogni educativi degli alunni, all’insegna di quanto previsto dall’art. 3 della Costituzione, cosa è stato fatto “per rimuovere gli ostacoli che esistono, per fare della scuola il luogo di promozione di tutte le capacità di un popolo a progettare e realizzare la sua crescita e il suo destino? (p. 89)”.

Lungi da ogni ipocrisia gattopardesca, in Italia è possibile realizzare un tipo di scuola che tenga conto del processo evolutivo degli alunni e che “cerchi di adeguarsi alla diversità non come eccezione, ma come norma e valore?” (Mario Lodi, Guida la mestiere di maestro, Editori Riuniti, Roma, 1982)
… Un grazie a Mario, un grazie alla pedagogia inclusiva che apre nuovi orizzonti per risalire dal baratro della regressione…

* Dirigente Scolastico, scuola media “Anna Frank”, Cesena

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