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da: organizzatori

La nostra terra è ricchissima di quella varietà di uomini che sono i pittori. Più pittori che medici, più pittori che avvocati. Artisti grandi e piccoli, modesti, eccelsi, più che noti, illustrissimi o ignoti, pieni di talento e senza. Stregoni del colore, del segno, del marmo, del ferro, della creta, della riga e della squadra.
Chiunque scopra in sé o senta la necessità di un linguaggio che lo avvicini ad orizzonti più vasti, si sente ed è pittore. Ma per certuni può essere una scelta difficile quando è definitiva. Certamente deve esserlo stato per Flavio Natali, per quest’uomo dalle mani gigantesche, dotate di forza fisica formidabile stringere un pennello; per questo colosso che si è umilmente confinato nello spazio ristretto, incredibilmente piccolo di uno studio fugacemente illuminato da una lampada barcollante e instabile. Qui è diventato pittore.
Il suo nome è ignorato dalle migliaia di pagine che elencano gli artisti che affollano con le loro opere chilometri di pareti, di musei e gallerie.
Le sue opere mancano dell’esame e del controllo del critico che stabilisca capacità e meriti, significati, tecnica e ricerca.
Il suo non è un mondo insolito, ossessivo o di visioni allucinate, e si presta assai poco ad essere riassunto nelle formule magiche della critica contemporanea.
Le sue opere non creano leggende. La sua pittura è una folata di vento in cieli cupi e tesi, una sinfonia di verdi contenuta in paesaggi lacustri e banchi di nebbia vaganti.
Un paesaggio musicale di vento e pioggia simile a cupo smeraldo liquido non dettato da una capacità logica di coerenza alle regole, ma dal dono di arrivare all’espressione attraverso l’oscura e medianica forza dell’inconscio, che non svela gli aspetti più intimi e segreti della natura e delle sue trasformazioni, ma una natura che prende le dimensioni dell’uomo e che Natali manifesta impaurito, triste e nello stesso tempo incredulo.

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