di Federico Di Bisceglie
Per raccontare la storia di un uomo straordinario come Giovanni Falcone è innanzitutto opportuno ricordarsi che di straordinario in Falcone non c’era proprio nulla. La città di Palermo negli anni fra il 1980 e il 1992 era un cimitero a tutti gli effetti. Centinaia di morti per le strade, cadaveri straziati, fiumi di sangue, pallottole a non finire, insomma un clima davvero infernale, un clima di guerra, perché Palermo allora era in guerra, in guerra con se stessa, in guerra con lo Stato, in guerra con la legge. Eppure, sebbene le circostanze non lasciassero molto spazio alla speranza, c’era qualcuno che credeva ancora nei ‘vecchi’ valori della giustizia e della legalità e che ha cercato di portare attraverso il proprio contributo un po’ di luce in un’immensità di tenebre, le tenebre della mafia. C’era chi alla strada più semplice, alla via del successo facile, delle mazzette e dei favoritismi, cercava di contrapporre regole, principi, che di fatto possono essere racchiusi in una parola sola: onestà. Ma non l’onestà gridata a un funerale di un “politico” per fare leva sulla stampa e per ottenere consenso, bensì l’onestà vera, di chi si espone a viso aperto e senza paura contro la criminalità organizzata perché al proprio paese ci tiene davvero e lo vuole cambiare in meglio davvero, coi fatti, con le indagini, con gli arresti, anche a costo della propria vita. Alle persone del calibro di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Ninni Cassarà, non serviva millantare nulla, perché lontani dalle luci della ribalta portavano avanti il proprio lavoro, istruivano i processi, e quando riuscivano mettevano in galera i malviventi. Purtroppo però, le persone che come Falcone si battono quotidianamente contro il malaffare danno fastidio, sono ingombranti, e danno fastidio soprattutto a quelle persone, pronte a usare come motto l’onestà, ma rivelandosi non differenti agli altri nel rubare e nell’essere implicati in vicende a dir poco torbide.
Falcone venne isolato, venne lasciato solo, emarginato soprattutto dai suoi colleghi, nei tribunali, e da una politica miope, che gli impedì di fare le indagini più scottanti, poiché probabilmente avrebbero interessato anche alti funzionari dello Stato. Quello stesso Stato del quale Giovanni Falcone andava tanto fiero e per il quale fu costretto a pagare con l’estremo sacrificio. ll 1992 per l’Italia fu un anno assolutamente incredibile e segnato da eventi destinati a cambiare radicalmente la Storia di questo Paese. Le condanne definitive del maxi processo all’ergastolo per i boss mafiosi, con relativa applicazione dell’articolo 41 bis, carcere duro; l’inizio a Milano dell’inchiesta Mani pulite; infine, purtroppo, l’apice della stagione stragista.
La grande contraddizione del nostro Bel Paese è che chi cerca davvero di cambiare le cose, chi si batte per il bene comune e per ridare un po’ di giustizia e dignità alla propria nazione viene ucciso o messo da parte in altro modo, mentre chi ostenta e proclama grandi valori, senza poi sostanzialmente farsi carico di difenderli e diffonderli, fa successo e viene preso a esempio. Il vero problema è che in maniera ipocrita in Italia il 23 di maggio si ricorda la morte di Falcone e della scorta e il 19 luglio quella di Borsellino, ma gli altri giorni dell’anno? Che senso ha ricordare due paladini della giustizia il giorno dell’anniversario della loro morte, magari anche con grandi discorsi e belle parole, pronunciate talvolta a menti giovani e desiderose di giustizia, se poi con la stessa faccia si ruba e non si fa nulla concretamente per arginare il problema. Il loro insegnamento è perenne e dovrebbe essere da esempio per tutti, tutti i giorni, per arrivare ad avere un paese onesto e che riesca una volta per tutte ad apprezzare “Il fresco profumo di libertà, che si oppone al compromesso morale”.
Sostieni periscopio!
Riceviamo e pubblichiamo
I commenti sono chiusi.
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it