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La crescente automazione e robotizzazione della produzione congiura contro i posti di lavoro?
Gli studiosi non sono proprio d’accordo, ma pare esserci più di un ragione per rispondere sì a questa domanda.
Altro che gli immigrati che toglierebbero lavoro ai nostri giovani: chi lo dice, nella migliore delle ipotesi, mente sapendo di mentire.
Su quest’ultimo punto è utile leggere quanto scrive Gianpiero Dalla Zuanna, docente di demografia a Padova, sull’ultimo numero de Il Mulino (2/2016): “sul mercato del lavoro gli immigrati sono complementari piuttosto che concorrenti degli italiani”.
Ma il punto che apre gli scenari più inquietanti è il primo. Ne scrive nello stesso numero della rivista bolognese il sociologo Carlo Carboni, con un argomentare di cui è consigliabile non perdere una virgola.
Cominciamo dai numeri. Da qui al 2020 la sola robotica avrà nel mondo un valore che sfiorerà i 152 miliardi di dollari, laddove oggi ne vale 27.
Uno sviluppo impetuoso, tanto che gli esperti parlano di una nuova società.
C’è chi ha già calcolato che nei prossimi quindici anni negli Stati Uniti le applicazioni dell’intelligenza artificiale metteranno a rischio il 47% dei posti di lavoro e in Europa la musica non sarà diversa.
Come se non bastasse, si dice pure che le nuove tecnologie necessitano non solo di meno lavoro umano, ma spingono verso la concentrazione della ricchezza in poche mani, contribuendo ad accentuare un problema di diseguaglianze già oggi a livelli mai visti, se non ai tempi del Re Sole.

Alcuni studiosi dicono che in realtà non c’è alcuna evidenza empirica nella correlazione tecnologie-meno occupazione. Del resto è pur vero che storicamente l’introduzione delle macchine nel ciclo produttivo, dopo i primi spauracchi, ha finito per creare nuovi lavori.
Altri però fanno notare che non era mai successo un processo di automazione in tutti i settori produttivi. Nel passato le macchine hanno colonizzato prima l’agricoltura, poi l’industria.
Ma se i robot sono destinati da qui al 2030 (così le previsioni) ad automatizzare trasversalmente tutti gli ambiti produttivi il discorso cambia. Tanto per fare un esempio, l’accelerazione in atto non risparmia settori come la biomedica: fra non molto si ipotizza che anche professioni niente affatto di routine saranno sostituite da computer nell’ambito delle diagnosi delle malattie.
Del resto è di queste settimane la notizia di nuovissimi automezzi che possono andare per strada senza conducente.
Ad avvalorare questo scenario, praticamente alle porte, ci sarebbero anche i fautori della terza via, rispetto a chi condivide e a chi è contrario. Se si ritiene che gli effetti negativi sull’occupazione possano essere governati con politiche attente alla crescita di lavoratori con alte specializzazioni (high skill workers), vuol dire implicitamente che questo futuro, piaccia o no, ha una sua plausibilità.

Il domani del lavoro, poi, sarebbe ancora più incerto in Europa. Nei grandi paesi a industrializzazione matura si registrerebbe mediamente un certo ritardo in fatto di high tech, Germania compresa (figuriamoci gli altri), rispetto agli standard più avanzati. L’Ue, nel complesso, avrebbe vissuto la rivoluzione informatica da colonizzata e starebbe già conoscendo un fenomeno, chi più chi meno, di labour killing nel manifatturiero, nella logistica e altri settori.
Anche in questo caso la prospettiva che mette i brividi sta nei numeri. I settori nell’Ue ad alta tecnologia contano poco meno di due milioni di posti lavoro, destinati però a diventare sui cinque milioni nel 2018. Il problema è che la forza lavoro super skilled in Europa arriva a circa il 10% e per ogni posto di lavoro superdotato ce ne sono quattro di routine, cioè a rischio robot.

Tirando le somme, si può dire che stiamo andando, più velocemente di quanto si creda, verso una deindustrializzazione occupazionale, aggravata – come nel caso Ue – da un ritardo tecnologico-informatico, da cui si potrebbero trarre le nuove figure di lavoratori super in grado di reggere l’urto.
L’impetuoso tornante tecnologico di questi tempi è dunque destinato, almeno nel breve e medio periodo, a espellere più posti di lavoro di quanti se ne potranno creare e questo succede – come se piovesse sul bagnato – dopo anni di una crisi che ha leso i tessuti sociali e mandato ko la cosiddetta classe media, cioè la cassaforte dei consumi.
Per toccare con mano l’entità della trasformazione in atto, si può aggiungere che nei soli Stati Uniti l’incidenza dell’occupazione manifatturiera è scesa dal 22,5% del 1980 all’attuale 10% ed è destinata a ridursi al 3%.
Un altro mondo, che sarebbe bene mettersi in testa di abitare non da spettatori, se sono vere le previsioni della Banca mondiale secondo la quale entro il 2030 il mondo perderà la bellezza di due miliardi di posti di lavoro, mentre solo per un miliardo in più suonerà la sveglia la mattina.
Gli anglosassoni, che hanno sempre una frase pronta per definire con bello stile ciò che spesso è una fregatura, la chiamano jobless growth.

“Cosa farà il resto della popolazione per vivere?”, si chiede Carboni. E se se lo chiede lui, noi poveri mortali stiamo freschi. Specie se si pensa che nel frattempo l’età media s’innalza. Restare fino a 80 e passa anni per fare che? Di quale welfare ci sarà bisogno se queste sono le premesse e, soprattutto, se le diseguaglianze sono destinate ad aumentare, tra una minoranza padrona della tecnologia e un esercito, se va bene, di precari?
Appare fin troppo chiaro a questo punto che i veri banchi di prova per limitare, almeno, i danni sono politiche espansive nei settori high tech, nel sistema formativo, in ricerca, anche per indurre a cascata nuovo lavoro in altre direzioni: tempo libero, cultura, sostenibilità ambientale.
Uno scenario che potrebbe richiedere – udite, udite – maggiori connessioni, sinergie e coordinamento, al posto della competizione, da sempre motore genetico del sistema capitalistico.
In sostanza, la capacità di disinnescare la bomba a orologeria di “disoccupazione e disuguaglianze da tecnologia – scrive Carboni – dipende dalla competenza e dalla vision delle nostre classi dirigenti e dalla conseguente trasformazione del capitalismo democratico”.
Più facile a dirsi che a farsi, in un tempo nel quale la politica appare decisamente accessoria all’economia e nel quale comanda chi possiede la tecnologia più avanzata.
Se poi si aggiunge chi sbraita che gli stranieri ci rubano il lavoro, allora siamo in un film di Alberto Sordi.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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