La notizia del giorno – anche se ormai è di due giorni fa – è ‘sta cosa di Merle Haggard che lascia questo mondo proprio nel giorno del suo compleanno.
Non era in forma da un po’, ormai, e ne aveva 79.
Però nonostante tutto era ancora carico e ancora pronto ad andare in tour.
Era anche arrivato a dire che alla fine dei concerti i suoi polmoni malandati si sentivano meglio.
Non faccio fatica a credergli.
Ho scoperto Merle Haggard quando avevo circa 16 anni.
Stavo guardando uno speciale di Augias su Rai Tre, una roba sugli anni ’60.
Io all’epoca c’ero sotto di brutto con tutta quella chincaglieria hippie e sentire questo qua coi capelli corti che ne cantava quattro a quei fattoni mi fece incazzare un bel po’.
Ovviamente il pezzo era la più o meno celebre (non troppo qui da noi) Okie From Muskogee.
Quel pezzo uscì più o meno verso l’apice delle proteste contro la guerra in Vietnam e prevedibilmente diventò una specie di inno reazionario-buzzurro-redneck-nixoniano.
E infatti l’anno dopo il vecchio Milhous chiamò Merle Haggard a suonare alla Casa Bianca.
Le cose però non stavano esattamente così.
Merle Haggard era nato in California da una famiglia poverissima originaria dell’Oklahoma.
La famiglia perse la casa durante la Depressione e tentò così la fortuna nello stato del sole o dell’oro o dei fattoni o dei surfisti, chiamatelo come volete.
Comunque in California non andò benissimo, anche perchè il padre di Merle morì quando il nostro eroe aveva solo 9 anni.
A 12 anni gli regalarono una chitarra ma questa cosa, almeno all’inizio, non servì molto a tenere il piccolo Merle lontano dalle rogne e soprattutto dal crimine.
Iniziò un periodo di riformatorio e gabbie varie da cui uscì solo nel 1960 circa.
Nel 1958 però il buon Merle si trovò davanti la luce: Johnny Cash che suonava proprio nel carcere in cui stava lui, ovvero il celebre San Quentin.
In quel carcere incontrò persino Caryl Chessman, a.k.a. il famoso carcerato autore di quel best-seller.
L’incontro con Chessman gli fece bene perchè da quel momento il cattivo Merle decise che sarebbe diventato il buon Merle.
Uscito di galera nel 1960, il nuovo, rinato e ora buon sig. Haggard iniziò a fare lavoretti di merda vari tentando al tempo stesso la fortuna con la musica.
Nel 1964 riuscì a infilare una hit nazionale e nel 1966 circa era già una vera stella della “musica di campagna”.
Non solo una stella ma anche un innovatore.
Ok, c’è stato prima Buck Owens (Act Naturally!) ma principalmente è grazie a Merle Haggard che possiamo dire “country di Nashville” e “country di Bakersfield”.
Ed è solo grazie a Lou Reed che io, dopo quel primo incontro sfortunato con Okie From Muskogee, iniziai a guardare Merle proprio con altri okie.
Cito più o meno a memoria il vecchio Lou: “prendi Merle Haggard… è un redneck ma dio santo se sa scrivere e cantare delle canzoni”.
Ma la scintilla mi colpì comunque più tardi.
E mi colpì nuovamente grazie a un altro grande inquilino del mio pantheon, Keith Richards.
In quel libro meraviglioso che è la sua biografia, il buon Keith riuscì a farmi capire non solo il country ma anche le sottilissime differenze fra il “suono di Nashville” e il “suono di Bakersfield”.
Tutto questo grazie al maestro (e compagno d’ago) di Keith, un tipo da mille punti come Gram Parsons, ovvero il grandissimo riformista del country e teorico di quella “cosmic american music” che adesso fa sognare pannocchiari e piccini.
In soldoni, Parsons la spiegava più o meno così: “la vecchia Nashville, tradizionale, tradizionalista, istituzionale, sviolinante, sempre incapace di accettare i propri figli fuorilegge” e “la quasi punkeggiante Bakersfield rifugio di questi outlaw, apostoli di suoni decisamente più asciutti, anzi proprio secchi secchi e per niente sdolcinati”.
Ed è questa la parola: outlaw.
Merle Haggard è stato uno dei grandissimi di quella particolare sottoscuola.
Quella sottoscuola che parte dal sottoscala e passa da Hank Williams, Johnny Cash, Willie Nelson, Kris Kristofferson ecc.
In parole poverissime: il country senza menate, violini, capelli cotonati e vestiario estremo, così per usare un eufemismo.
Canzoni che continuavano sì a parlare di “lacrime nella birra” ma soprattutto di lavoratori, carcerati e poveracci vari.
Una svolta rivoluzionaria, soprattutto in quegli anni strani.
Una svolta che collocò quei “fuorilegge” in un vago limbo, definibile quasi come “country di sinistra” o country digeribile e/o apprezzabile anche da chi proprio non va matto per la musica da venditori di auto usate (cit.).
Mi ricordo ancora il momento in cui ascoltai Sing Me Back Home nella versione di Merle.
L’avevo beccata prima fatta da Keith Richards, la versione di quel famoso bootleg del ’77, quello che sa di testamento.
La versione di Keef è la versione di un uomo fatto come un copertone, la versione di un uomo di 34 anni che ha paura di finire in gabbia per colpa del suo vizietto della pera.
Ma la versione di Merle Haggard è una versione universale.
E’ la versione di un nonno un po’ bruciato ma comunque di un nonno.
O di un uomo che di cazzate ne ha fatte tante (e avrebbe continuato a farne) ma di sicuro sa distinguere le cose importanti dalle cose impressionanti.
Anni dopo, riguardo a Okie From Muskogee, si scoprì la verità.
Haggard concepì il pezzo pensando alle eventuali reazioni di suo padre davanti a quegli anni di contestazioni.
Di certo non voleva essere l’alzabandiera dei nixoniani.
Anche perchè quella marijuana citata nel primo verso lui se la fumava eccome.
E se l’è fumata più o meno fino al 2009.
Nel mentre si è fatto anche di peggio.
Questa storia a mio avviso è abbastanza interessante per parecchi motivi.
1)
Col senno di poi quella canzone può essere vista solo come un sogno.
Merle Haggard sogna suo padre vivo nel 1969 e punto.
E come dice bene Werner Herzog “i sogni non seguono le regole del politicamente corretto”.
2)
Chi se ne frega delle eventuali idee politiche e/o intenzioni di una persona che comunque ha fatto in tempo, poco prima di schiattare, a dire pubblicamente che Trump è un cretino.
Poi è una bella canzone e ha ragione Lou Reed.
Ad ogni modo molto meno reazionaria di tutti quei pezzi reggae apparentemente solari che vanno molto in certi ambienti così progressisti.
3)
Parecchie volte, neanche troppi anni dopo il fattaccio, Merle Haggard ha ammesso di aver avuto torto marcio sulla questione contestazione/controcultura.
E qui arriva il punto che mi sta davvero a cuore: quanto abbiamo bisogno di gente con il coraggio di dire “ah beh, scusate, l’ho fatta fuori”?
Un sacco, porca vacca.
Quindi per oggi via con un pezzo che non rovinerà a nessuno un eventuale primo incontro con Merle Haggard.
Addio, vecchiaccio.
Ogni giorno un brano intonato alla cronaca selezionato e commentato dalla redazione di Radio Strike.
Selezione e commento di Andrea Pavanello, ex DoAs TheBirds, musicista, dj, pasticcione, capo della Seitan! Records e autore di “Carta Bianca” in onda su Radio Strike a orari reperibili in giorni reperibili SOLO consultando il calendario patafisico. xoxo <3
Radio Strike è un progetto per una radio web libera, aperta ed autogestita che dia voce a chi ne ha meno. La web radio, nel nostro mondo sempre più mediatizzato, diventa uno strumento di grande potenza espressiva, raggiungendo immediatamente chiunque abbia una connessione internet.
Un ulteriore punto di forza, forse meno evidente ma non meno importante, è la capacità di far convergere e partecipare ad un progetto le eterogenee singolarità che compongono il tessuto cittadino di Ferrara: lavoratori e precari, studenti universitari e medi, migranti, potranno trovare nella radio uno spazio vivo dove portare le proprie istanze e farsi contaminare da quelle degli altri. Non un contenitore da riempire, ma uno spazio sociale che prende vita a partire dalle energie che si autorganizzano
Sostieni periscopio!
Radio Strike
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it