Vincitore in patria del prestigioso premio Golshiri (lo Strega iraniano), assegnato dalla Fondazione Golshiri, la più importante istituzione letteraria dell’Iran contemporaneo, e del premio Yalda, uno dei principali riconoscimenti letterari iraniani, Come un uccello in volo, di Fariba Vafi (uscito in Iran nel 2002), è un romanzo diverso, coinvolgente e toccante, lontano dagli stereotipi sull’universo femminile mediorientale cui la stampa e la propaganda ci hanno nel tempo abituati.
Nata nel 1962 a Tabriz, nel nord del paese, e formatasi alla scuola della polizia femminile islamica a Teheran (rientrata a Tabriz, viene impiegata come guardia carceraria ma abbandona il servizio dopo tre mesi), Fariba Vafi è oggi una delle scrittrici di maggior successo in Iran: ha pubblicato una raccolta di racconti (il primo racconto Rohat shodi pedar, Ora sei in pace, papà, risale al 1988) e quattro romanzi diventati dei best seller in breve tempo e rappresenta una nuova generazione di scrittori (in gran parte scrittrici, per la precisione) apparsi sulla ribalta letteraria dopo la Rivoluzione islamica del 1979 (da allora molte donne tornano sulla scena).
Come il precedente libro di altra bella scoperta letteraria iraniana (A quarant’anni, di Nahid Tabatabai, vedi), siamo immersi ancora una volta in un mondo femminile delicato e complesso, quello di una giovane donna come tamte (il cui nome non compare ma che ha molte somiglianze con l’autrice), alla ricerca della propria identità di casalinga stretta fra quattro strette mura che cerca di ridefinire il proprio ruolo di madre riluttante, di moglie stanca e di figlia insofferente, cui difficilmente ormai si riconosce. Siamo in Iran, lo si immagina, considerata la nazionalità dell’autrice e i nomi dei protagonisti (i figli Shadi e Shahin, le sorelle Shahla e Mahin e il marito Amir), anche se questo non viene mai scritto chiaramente. Questo il segno di una storia che potrebbe ancora una volta, essere universale, quella di molte donne nel mondo. Come lo era stato per Alaleh (vedi).
In una realtà che non è in bianco e nero, almeno non più. Fossilizzata in una condizione di inerzia, soggezione e insoddisfazione alla quale pare condannata dal suo difficile passato familiare rimasto avvolto nel mistero e nella paura (“io avevo paura del buio, delle cantine, delle ombre, di zio Qadir e perfono di mamma e di zia Mahbub e perciò non mi usciva la voce”), la protagonista comincia a prendere coscienza di sé stessa nel confronto con un marito sempre inquieto, la cui unica risposta al malcontento e alle difficoltà del vivere quotidiane pare fossilizzata nel sogno ossessivo di emigrare lontano, in Canada, terra di speranze, per tutti. E che, a un certo punto, se ne va a lavorare in Azerbaigian, a Baku. E’ stanca di combattere con la vita di ogni giorno e un marito indifferente (“sono stufa di dovermi occupare costantemente dei bambini, del muro scrostato, dello scaldabagno rotto, degli scarafaggi che non scompaiono con nessun insetticida”), si sente un po’ come “un uccello migratore”, “rinchiuso in gabbia”, finché trova dentro di sé la via per uscirne, cantando (Alaleh vi era riuscita riprendendo a suonare il violoncello. Ah, la musica!). Una donna che non si guarda allo specchio, che si rifugia nel silenzio, che, tuttavia, non è passivo né aggressivo. È un silenzio critico, pieno di domande. Nel suo silenzio, la protagonista guarda gli altri, osserva, s’interroga, e infine trova sé stessa. È una sorta di riflessione che le serve per valutare la sua vita, per capire come proseguire. Viaggia in sé stessa, con sé stessa e attraverso sé stessa. Devota e lavoratrice ma stanca, davanti a una calda tazza di caffè o a un intenso e aromatico the odoroso.
Il libro ha uno stile asciutto e denso, le immagini colorate e le descrizioni vive dei quartieri e della vita che vi ruota intorno sono di forte impatto ed empatia; tutto mi ricorda i colori, le sensazioni, i rumori, gli oggetti, le cianfrusaglie, i negozi, i fiori, il brusio, il rumore e gli odori di molti quartieri sovraffollati di paesi nord-africani. Mi vengono in mente Tripoli, Algeri o Il Cairo, i loro vecchietti sdentati per le strade, i giovani che chiacchierano, le donne che fanno acquisti, i venditori di verdure, i fornai che fanno il pane. Come dimenticarle. Una storia toccante e coinvolgente, per tutti.
Fariba Vafi, Come un uccello in volo, Ponte33, 2010, 136 p.
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Simonetta Sandri
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