Da un genio ci si devono attendere delle cadute. Nel caso di Woody Allen ci si aspettano anche brutti film. Ma mai banali. Eppure “Irrational Man” è di una banalità spaventosa. I pezzettini, le pillole di una cultura filosofica totalmente mal digerita pervadono il film che, per giunta, dovrebbe rappresentare la cultura di un college americano assai reputato.
Poi ho capito. Quelle frasi, quei tic, quei comportamenti, sono propri della cultura umanistica delle più rinomate università americane. Le ho sentite negli anni Ottanta allo Smith College, negli anni Novanta a San Francisco e alla New York University, dopo il 2000 anche a Harvard. Un brivido nel sentire citare Hanna Arendt e gli esistenzialisti francesi in quel modo. Ma così è e così sarà. Le elucubrazioni filosofiche del protagonista del film (un bravo attore appesantito e gigionesco) mettono a disagio. Eppure quel modo d’insegnare è la forza degli USA. Se recepisci la cultura banale sei pronto a una selezione attraverso la quale i bravi studenti arriveranno in Europa, e allora forse capiranno cosa vuol dire filosofia, arte, letteratura.
Woody però, che ci ha dato opere superbe anche ‘traducendo’ Shakespeare, qui fa un tonfo clamoroso, forse per troppa adesione alle banalità sparate nelle Università chic della costa Est, proprio lui che sembra prendere sul serio dall’alto della sua vecchiaia quei discorsi.
Oppure è tutta una farsa che mette in scena?
Questo postavo domenica su Facebook e immediatamente un amico d’origine ferrarese, che insegna in una prestigiosa università americana, Andrea Malaguti, così rispondeva: “Qui in USA ha vinto il banale e hanno perso le humanities, ormai viste come inutile perdita di tempo (o discorsi da sfigato, come quelli di “Irrational Man”). Gli studenti americani più bravi non vanno in Europa a studiare letteratura, arte e filosofia (che peraltro in Germania non si studia nemmeno più, dicono), ma in Cina a metter su fabbriche o a Wall Street a fare Pil (o in Brasile a fare affari). Il film di Woody Allen presuppone anche questo.”
E il disinteresse per le humanities farà sì che il maggior numero di programmi delle università americane in Italia, ma anche in Europa, l’anno prossimo chiuderanno. Ovviamente anche per la preoccupazione di qualche attacco terroristico, ma non si dica che è colpa solo dell’Isis. Da tempo il perno della storia cambia l’orizzonte del sapere e le sue modalità. Solo poco più di un decennio fa si dovevano affittare sale enormi per ascoltare le lezioni su Dante. Un’esperienza che ho condiviso con Lino Pertile, uno dei grandi studiosi del poeta. Lui a Harvard, io a Firenze.
E si parla di Dante: un’icona piuttosto che di un poeta. L’attrazione non è la poesia, ma la curiosità di come può essere recepita o vissuta un’esperienza politica di ottocento anni fa attraverso lo strumento ormai quasi inconoscibile che è la poesia. O attraverso una voce, Benigni, in primis, che dà il tono alla ricerca.
Un libro di estrema divulgazione e di grande mole (1177 pagine nella traduzione italiana), un cult mondiale scritto da un ex detenuto, Gregory David Roberts, intitolato “Shantaram”, distingue tra saggezza e intelligenza: “La saggezza è solo intelligenza svuotata dalla sua forza” (p.128). E seguire le vie dell’intelligenza può a volte condurre a scelte pericolose, che in fondo sono quelle che Abe Lucas mette in pratica per esprimere assai confusamente il pensiero nicciano e dostojievskiano di un uomo al di sopra della legge morale e di delitto e castigo. Ma sempre secondo la strategia della banalità. Allora meglio sarebbe stato per Allen seguire le vie della saggezza che quelle dell’intelligenza.
Non a caso impazza, in questo nevrotico inverno, tra campi in fiore e smog, la profezia della fine del mondo. Così il concetto di luce, che banalmente sta a significare vita, pensiero, sconfitta della morte e del buio, viene rovesciato – nello splendido elzeviro di Francesco Merlo su La Repubblica del 27 dicembre – nell’elogio dell’ombra, nel rifiuto dell’accecamento. La luce tremenda del deserto che fissa inesorabilmente i delitti e le esecuzioni del califfato, la luce che rompe la notte richiesta e invocata dai campi esausti, la luce che sconfigge il regno delle tenebre nell’ultimo, adorato film della saga di Star Wars. Eppure la luce come desertificazione diventa il centro dell’articolo di Merlo. Luce come aridità. Luce come siccità nei campi e nel sentimento. Ecco allora che i deliri del professor Abe Lucas si trasformano in aridità. In una luce che porta rovina. Così l’ultima frase di Goethe, che da decenni era diventata il logo della mia ricerca, viene crudelmente contestata da Merlo e rovesciata nella necessità del buio: “Solo l’ombra dà forza allo spirito. Si racconta che mentre moriva Goethe disse di vedere più luce [o meglio invocava la luce n.d.r] “Mehr Licht”. Anche se qualcuno giurò di avere sentito: “Mehr Nicht”. Più luce o più niente?”
E per concludere queste note irrazionali, dettate dalla visione di un film che descrive un uomo senza ragione, si ritorni ai fatti di casa nostra e si veda come la banalità imperi sovrana nelle scelte. La banalità delle risposte della Nuova Banca Carife. La banalità dell’albero di vetro. La banalità dei commenti politici, banali e angosciosi assieme. La banalità che s’annida nelle sciarpone dell’alfiere del banale, Brunetta, nelle felpe di Salvini, nella barba di Grillo, nella giacchetta mimetica di Renzi.
Sarà possibile una vita senza la banalità? L’unica risposta, come sempre, ci viene da tutte le forme dell’arte, che la combattono per natura, per missione, per scopo.
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Gianni Venturi
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