INTERSEZIONI
I rifugiati mettono in scena le loro storie a teatro
da Cooperativa sociale Camelot
Il Teatro Nucleo di Pontelagoscuro ha ospitato per dieci giorni la residenza artistica di due registi, che hanno realizzato un laboratorio teatrale con alcuni rifugiati residenti a Ferrara.
Il risultato è l’emozionante spettacolo “La Fuga” andato in scena il 9 dicembre.
Douglas è un richiedente asilo che vive a Cona nella casa gestita dalla cooperativa Camelot, ha studiato recitazione fin da bambino. In Nigeria era attore per il teatro e per il cinema, ha anche lavorato in alcuni colossal di Nollywood, ed ora il suo sogno è tornare sul palco. Lo spettacolo “La Fuga” gli ha ridato la speranza di poterci riuscire.
La scena si apre con due pannelli neri che si muovono spinti da un gruppo di migranti e si dispongono a formare la prua di una nave di fronte al pubblico. Il senso è: siamo tutti sulla stessa barca. Non solo chi scappa dal proprio paese, ma ogni abitante della terra. E se non riscopriamo il senso di comunità, non c’è futuro per nessuno.
“La Fuga” è uno spettacolo intenso che mette in scena il talento espressivo e la ricchezza umana di chi si è abituati a considerare un “problema”. A recitare sono, assieme ad un’attrice italiana, rifugiati e richiedenti asilo che vivono a Ferrara, che per oltre una settimana hanno partecipato al laboratorio teatrale tenuto, presso il teatro “Julio Cortàzar” di Pontelagoscuro, dai registi Andrea Santantonio eNadia Casamassima del Centro Iac (Centro Arti Integrate) di Matera, ospiti della residenza artistica “Cose Nuove” organizzata dal Teatro Nucleo.
Parlano di sé, si mescolano tra il pubblico, ripropongono le frasi razziste di un articolo del ‘58 che gli americani scrissero contro gli italiani e sembra di sentire i luoghi comuni di oggi sui profughi. Ballano, cantano, si rincorrono, si interrogano, ci interrogano, e alla fine disegnano per terra i loro desideri. Una casa, un albero di arance, una chiesa, una piscina, un’auto, una scatola dei ricordi, un bambino. Poi, un attimo prima della conclusione dello spettacolo e degli applausi finali, prendono per mano gli spettatori e li conducono in scena per spiegargli perché hanno fatto quel disegno, e cosa rappresenta. Dapprima le persone sono in imbarazzo, poi tutti vogliono ascoltare e si alzano spontaneamente per andare a sentire i racconti dei rifugiati. Il teatro compie la magia: indurre all’ascolto, alla curiosità, a superare le proprie resistenze.
“Non vogliamo gli applausi, vogliamo parlare”, dicono gli attori. Ma gli applausi arrivano lo stesso, per suggellare questa comunione laica che ha portato tutti incredibilmente vicini nel copro e nei sentimenti.
“Abbiamo voluto rappresentare l’allontanamento necessario, la diaspora dei popoli, l’emigrazione da terre inospitali. Quelle fughe che spingono ad allontanarsi dai conflitti in cui si è solo vittime, dalle terre in cui non si è chiesto di nascere. Quelle fughe a cui ci stiamo abituando ad assistere, a cui non riusciamo a trovare rimedio, ma a cui vogliamo dare una voce”, ha spiegato il regista Andrea Santantonio.
“Non volevamo parlare della loro traversata, di cui abbiamo già visto e sentito tanto, ma di quanto loro si sentano ancora in viaggio. Nessuno di loro si sente approdato, e questa è una condizione comune a tanti esseri umani”.
“Per noi è importante che loro siano attori non solo dello spettacolo, ma della loro esistenza. Che iniziano a porsi non come oggetto, ma come soggetto attivo, che mettano a disposizione quel che hanno per creare comunità”.
Non sono parole, ma è quel che è accaduto al termine dello spettacolo, con il pubblico
che ha voluto conoscere queste persone.
Oami è fuggita dal Gambia dove lavorava in una TV locale come attrice di soap opera, e tornare a recitare è come recuperare un pezzetto della sua storia.
Al pubblico regala un canto in lingua mandingo. “E’ un canto di benvenuto – spiega – racconta di un paese che accoglie, così come un uomo tra le sue braccia”.
E’ l’augurio che facciamo a noi e a loro oggi, Giornata mondiale dei diritti umani, anniversario della proclamazione, da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, della Dichiarazione universale dei diritti umani, il 10 dicembre 1948.

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Riceviamo e pubblichiamo
PAESE REALE
di Piermaria Romani
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)