E non chiamatelo “Prosecchino”. Storia di nobili bollicine
Tempo di lettura: 4 minuti
Indubbiamente il confezionamento in lattina proposto per il mercato statunitense non ha giovato alla sua immagine. Alla vendita magari sì: gli americani lo hanno familiarmente ribattezzato wine-coke e se lo bevono in allegria come fosse coca cola, contribuendo agli incassi di alcuni disinvolti produttori. Però la credibilità del Prosecco ne ha risentito, al punto che per molti, ancora oggi, di riflesso anche in Italia, è solo un “vinello”, un apripista buono per l’aperitivo, in alternativa allo spritz… “Invece quello vero, buono, artigianale – insorge l’enologo Fabio Magnani, che del Prosecco è estimatore – non solo è piacevolissimo, ma può accompagnare adeguatamente tutta una cena senza sfigurare affatto, e ha alle spalle una storia forse più antica del Chianti, del Brunello, del Barolo”. Nientemeno.
E’ una storia che parte dai nostri più titolati avi, i Romani. Già loro lo bevevano: lo chiamavano “Pucino”, ma di Prosecco si trattava. Utilizzavano il metodo della rifermentazione in anfora, immergevano gli scrigni – e il pregiato nettare in essi contenuto – in acqua fredda corrente sino ad ottenere un vino spumante che deliziava anche l’imperatore e la sua corte. Ne celebra le lodi persino Plinio il Vecchio. E sulla base dei suoi scritti, in epoca rinascimentale, si attribuiranno al Pucino-Prosecco persino qualità medicamentose.
Ma è dalla fine dell’Ottocento che nasce l’epopea del moderno Prosecco. E nasce ovviamente a Valdobbiadene, nel Trevigiano, dove il fermento culturale che porta nel 1868 alla creazione della prima società enologica d’Italia e nel 1876 alla fondazione della prima Scuola di viticoltura ed enologia si sposa magnificamente con le qualità e il fervore del vitigno che è alla base del Prosecco, il Glera, sposando così fermento a fermento…
Da allora è stata una spumeggiante escalation per un vino la cui culla è considerata il Veneto ma che deve curiosamente la propria denominazione a un remoto paesino friulano non distante da Trieste: proprio nel castello di Prosecco infatti è stato individuato il “castellum nobile vino Pucinum” citato dagli antichi romani. La provenienza del vitigno autoctono invero è incerta, ma l’inclusione del Friuli Venezia Giulia nell’area della Doc è stata salvifica per preservare la denominazione “Prosecco” e scongiurare che si ripetesse uno scippo pari a quello consumato anni fa ai danni del Tocai.
Così, curiosamente, per una sorta di principio di compensazione, proprio il Friuli – depredato del suo più celebre prodotto enologico (ora ufficialmente denominato “Friulano” ma da ‘vecioti’ ancora appellato Tocai) – “ha vinto il superenalotto – afferma Magnani – potendosi fregiare adesso dell’utilizzo di un marchio pregiato come Prosecco, che invece non appartiene alla sua tradizione”. Lo scorno stavolta è stato per i veneti, che si sono sentiti in parte depredati di una loro tipica eccellenza, ma il boccone, sia pur digerito a fatica, è stato obtorto collo inghiottito perché inevitabile, per impedire il rischio ben peggiore: quello di una incontrollata proliferazione commerciale del marchio.
Ma il Prosecco è indiscutibilmente Veneto. Eh, sì, perché la culla è Valdobbiadene, con il pregiatissimo l’enclave di Cartizze, località in cui si produce l’omonimo Prosecco superiore, in una terra affiorata – di monti che anticamente erano mare – nella quale la suggestiva presenza di conchiglie fossili danno visivamente conto della salinità del vino… E poi, naturalmente, c’è la bella Conegliano che, in comunione con Valdobbiadene, ha creato un robustisssimo consorzio di produttori, capace di sviluppare un marketing potente di cui paga le spese il più fragile consorzio di Asolo “dove pure – assicura Magnani – si producono vini eccellenti da ottime cantine, le quali però non godono del traino commerciale che hanno i confinanti. Ma anche qui si ottiene un vino sapido anche al naso, che ne percepisce i sentori d’alghe e di roccia”. Ma a produrre Prosecco ci sono poi altri comuni particolarmente vocati sempre nel Trevigiano e anche nel Padovano.
Il disciplinare è rigido: leggi Prosecco ma bevi Glera, il vitigno che sta alla base, e lo caratterizza almeno per l’85% dell’uvaggio, il quale può essere integrato da Verdiso, Perera, Bianchetta. I piccoli produttori però, causa la delicatezza delle altre uve, tendono a utilizzare Glera in purezza (“e questo si avverte in termini di minore ricchezza organolettica del vino”).
Tutto questo antipasto di gustose conoscenze enologiche ha accompagnato la consueta piacevolissima serata mensile dell’Onav, l’Organizzazione nazionale assaggiatori vino che a Ferrara fa base al ristorante Le Querce (del Cus) per i propri periodici meeting enogastronomici: sette interessanti degustazioni coniugate in genere a piatti tipici, con un appassionato enologo a far da cicerone e il delegato Lino Bellini con i suoi cortesi collaboratori come anfitrioni.
Interessante la serata e ricchi i numeri del Prosecco: la poesia del vino in questo caso si sorregge anche sulla solidità delle cifre: cinquemila ettari coltivati in 15 comuni, 135 quintali d’uva prodotti per ettaro, 57 milioni di bottiglie immesse ogni anno sul mercato. La zona del Cru di Cartizze è circoscritta invece a 107 ettari con una resa di 120 quintali per ettaro.
Edotti e affascinati da cotanto pedigree, al prossimo brindisi più che un ‘Prosecchino’ inevitabilmente invocheremo un signor Prosecco.
Sostieni periscopio!
Sergio Gessi
Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it