Italia corrotta, il cattivo esempio da politici e vip senza vergogna
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(pubblicato il 26 febbraio 2014)
Il termine vergogna viene dal latino ‘vereri’: provare un sentimento di timore religioso o di rispetto. La vergogna è rappresentata nella pittura con il gesto del nascondimento. L’immagine classica è quella di Adamo che si copre con le mani il viso, mentre è cacciato dal Paradiso assieme a Eva: la troviamo nella Cappella Brancacci a Firenze dipinta dal Masaccio.
Insomma chi prova questo stato emotivo abbassa gli occhi, cerca di sfuggire il contatto, si nasconde. Un passaggio ulteriore del discorso sulla vergogna è registrarne il carattere di emozione fortemente sociale e relazionale. E la conseguenza più lacerante di questo stato d’animo è la perdita di autostima, perché entra in crisi la propria immagine davanti agli altri.
Se queste considerazioni sono fondate, la presenza o l’assenza di vergogna rappresenta un fattore cruciale per comprendere la qualità dell’ethos pubblico di una società. Senza moralismi e piagnistei proviamo a chiederci perché in Italia da alcuni decenni l’uomo pubblico (politico, imprenditore, manager, calciatore, attore…) non prova vergogna se colto in flagrante come responsabile di reati gravi quali la corruzione e l’evasione fiscale. Evidentemente, non scatta una adeguata reazione sociale di respingimento e condanna perché la società è disposta a transigere e a ‘comprendere-giustificare’.
Perché? Ecco la domanda che ci facciamo in tanti. Sarebbe necessario un lavoro di ricerca interdisciplinare (storia, antropologia, psicologia sociale) per andare in profondità nell’individuare le cause di una vera e propria anestetizzazione dell’opinione pubblica rispetto a questi mali.
Niente più ci scuote. Il rapporto della Commissione europea che ci attribuisce il 50% della corruzione nei paesi dell’Unione, invece di farci vergognare e costringere il governo e il Parlamento a mettere in cima all’agenda politica tale emergenza, è stato rapidamente archiviato dalla classe politica e accolto con indifferenza dall’opinione pubblica. Eppure i connubi a cui rinvia l’evocazione di questo cancro vanno al cuore del funzionamento delle Istituzioni, della società e del mercato: politica e affari, politica e criminalità, affari-politica-imprese-pubblica amministrazione. Altro che moralismo! E’ centrale questione politica che attiene alla credibilità del nostro Paese in Europa e nel mondo.
Perché nessun partito politico fa sua questa emergenza? Gli annunci di rivoluzione (anche dell’attuale governo Renzi) riguardano tutti i campi, dal mercato del lavoro alla burocrazia, ma nessuno propone leggi severe contro i corrotti e i corruttori! Nel tempo dei sondaggi e del ‘mercato politico’ è logico pensare che se portasse consenso lo farebbero.
Allora sorgono spontanee alcune domande inquietanti. E’ perché il proprio elettorato di riferimento non sarebbe d’accordo? E’ perché il tema è minoritario fra l’opinione pubblica? E’ perché la corruzione è ormai parte del normale funzionamento della vita produttiva, politica e amministrativa? E’ perché si è smarrita la differenza tra ciò che è dovuto come diritto e ciò che è frutto di atti contro il rispetto delle regole e della legalità? E’ perché la rete degli scambi irregolari si è fatta talmente molecolare e capillare da costituire la base su cui si regge l’equilibrio del sistema? E’ perché il lavoro in nero, l’illegalità, l’evasione fiscale sono ormai fenomeni di massa non sradicabili? Ovviamente queste domande scomode sono retoriche, perché la mia risposta è sì a ciascuna di esse. Ogni ‘grande’ male (e la corruzione lo è…) per poter diventare tale deve contare su una larga complicità e connivenza. Senza individuare questo ‘basso continuo’ si corre il rischio di guardare il problema da lontano, come se fosse estraneo a noi e alle nostre cattive pratiche. Questa pista di ricerca non è certo consolatoria, ma ci aiuta a capire perché da Tangentopoli ad oggi la corruzione è aumentata e non diminuita.
Fiorenzo Baratelli è direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara
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Fiorenzo Baratelli
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