Ci sono posti che cambiano e restano sempre gli stessi. Posti passati, ma quanto mai nuovi. Posti che vedono passare storie, occhi, vivono di emozioni e rincorrono sogni. Congiungono cielo e terra, fanno vivere giovani e anziani, legano svariate generazioni, sembrano essere immortali. Ci sono posti, che sono più di semplici posti. L’entrata è semplice, umile, nulla di monumentale. La maniglia della porta, a furia di essere utilizzata, ormai non fa più il suo dovere: è un via vai continuo. Dentro, luci chiare e mobili nuovi, mosaici di avvisi infissi alle bacheche mettono colore, mentre il bancone del bar è incerottato, trasborda di patatine ed è letteralmente assalito dai più piccoli: le caramelle hanno sempre il loro fascino. Alcuni vogliono passare un pomeriggio alternativo per svuotare la mente oppure semplicemente divertirsi con gli amici, dando quattro calci ad un pallone. C’è poi chi è qui per fare i compiti, il doposcuola al primo piano funziona bene. All’improvviso, mi appare davanti una marea di ragazzi quasi fossero una cascata di pastelli che rotola giù dalle scale; scendono alla velocità della luce: hanno zaini apparentemente pesantissimi, ma sembrano non farci troppo caso. Un ragazzo dice all’altro: “prendi tu il pallone?”. Detto fatto. Li seguo e mi accorgo di un mondo che, da fuori, difficilmente si nota. Sotto il portico, due anziane donne decidono che nella vita non è mai troppo tardi per un aperitivo, l’analcolico biondo nel bicchiere sembra risvegliarle e ringiovanirle un po’. Passeggio per il porticato, quasi mi stessi mettendo a giocare a nascondino con il sole, un paio di colonne mi riparano da una giornata calda. Intanto i ragazzi sono già arrivati al campo, hanno passato i sampietrini del cortile e si trovano su un mare di crepe: il terremoto ha lasciato la sua firma, tante, in verità. Il rintocco del pallone che rimbalza per terra pare scandire i movimenti che ognuno di noi deve fare nella vita: concentrarsi, inquadrare l’obiettivo e poi colpire. Gol. La vita funziona un po’ così se ci pensiamo. Finché non si mette in mezzo il portiere e allora l’esultanza ti si blocca in gola ed è qualcun altro a gioire. Nel frattempo sono arrivati altri ragazzi, senza farsi troppi problemi si sono subito messi in gioco, la partitella è una formalità e nessuno resta fuori. Se qualcuno cade, subito c’è chi è pronto ad allungare una mano per aiutarlo, senza guardare prima se ha o no il passaporto, che colore sia la sua pelle o che lingua parli. Qualche momento di tensione capita nel momento in cui un ragazzo non ammette di aver toccato il pallone con la mano, ma tutto sommato, giocano sereni. La facilità con cui riescono a stare tutti assieme è invidiabile, le regole “indebolite” fanno sì che non ci siano troppe pressioni: è puro gioco. Prendi un pallone e metti tutti d’accordo… Magari fosse così nella vita. Hanno varie età, ma su questi campi le differenze sono azzerate, anche se sei piccolino (se hai pochi anni o una statura non sviluppatissima) puoi dire la tua. Mi piace pensare che fra questi piccoletti che giochicchiano davanti a me, in futuro, ci possa essere qualcuno che dirà la sua su campi ben più importanti. Ai bordi del campo, un papà e la sua piccolina si godono l’ombra del precedente oratorio, ormai dimora di piccioni e gatti. Sui suoi muri anche l’edera fa la voce grossa, sfilacciandosi per tutta la parete come le dita di una mano: sembra abbracciare quell’edificio vecchio, stanco e un po’ abbandonato. La bambina, seduta su una sedia arrugginita non tocca terra con le gambe, ha in mano un gelato più grande di lei, i baffi di cioccolato pitturano il suo viso pallido. Ha grandi occhi azzurri ed è attratta da quella palla che rotola per il campo. Suo papà è lì, sornione a fianco a lei, con la classica mano sulla spalla. Il fratellino sta provando in tutti i modi a segnare, ma prima un tiro svirgolato e poi il palo gli hanno negato quella che, a sette-otto anni, se sei un amante del calcio, è una delle emozioni più belle del mondo. Dall’altra parte di un piccolo muretto divisore, i “baskettari” sono già in postazione: gli schemi si sprecano e l’intensità è alta. Si gioca su metà campo, le squadre fatte sul posto e il pallone preso nel cesto davanti al bar in cambio di un pegno. Qua funziona così, mi spiegano. Ragazzi asiatici e italiani giocano assieme, senza nessun timore etnico o problema di comprensione della lingua: ancora una volta un pallone risolve tutti i problemi. Un gruppo di signori – vengo a sapere dopo che sono genitori della comunità – stanno preparando qualcosa seduti ad un tavolo. Lo intuisco dai ciò che dicono, a tratti in maniera molto concitata. Girovago attorno a loro per cercare di capirne di più, fin quando un tale si interessa a me e mi chiede chi sia, non avendomi mai visto qui. Così mi raccontano che loro sono un gruppo di papà che danno una mano a questo posto: a volte pitturano, a volte organizzano pub per racimolare qualche fondo per la chiesa (ah, a proposito, è ancora chiusa dal terremoto del 2012), altre volte inventano serate per far divertire i giovani, gestiscono la colletta alimentare e servono ai pranzi della Caritas. Trovano ritagli di tempo dal lavoro, dallo stare in casa (alcuni sono in pensione) o semplicemente per passione e riguardo nei confronti delle persone che popolano questo luogo. S’impegnano per gli altri, gratuitamente e con gioia. Encomiabili, dal mio punto di vista.Ad un tratto suona una campana, un suono altisonante che ti immobilizza. E’ il time-out, pausa pomeridiana con sguardo sul mondo. Ogni attività è stata momentaneamente interrotta, perfino alcuni giovani musicisti che strimpellavano qualche nota nell’aula di musica ci hanno raggiunto. Siamo schierati da un lato, qualcuno ride, altri sbuffano, volevano continuare a giocare. La varietà di persone che abita un oratorio è notevole: i più piccoli (i più irrequieti), gli adolescenti e poi i giovani, senza dimenticare i volontari, gli adulti e coloro che, giovani, lo erano qualche anno fa. Sono tutti in attesa del “pensiero del pomeriggio”, mi sussurra un’educatrice sotto voce. Di fronte a loro un sacerdote, panciuto, con due guance rosse e un sorriso in vista: quest’oggi parla del terremoto in Nepal e di come un oratorio dall’altra parte del mondo non sia crollato. Ora è dormitorio-casa-scuola per circa 800 ragazzi che, tornando a casa, non hanno trovato più nessuno che li aspettasse. Erano diventati orfani. A questo punto un bambino istintivamente abbraccia la mamma, qualcun altro invece abbassa la testa rattristito dalla notizia. Il sacerdote comincia a recitare una preghiera, viene ripetuta in simbiosi dalle voci squillanti dei ragazzi e da quelle più profonde e cupe (e forse rassegnate) degli adulti. Credo che ci siano posti che non debbano morire, non debbano essere dimenticati, poiché pezzi importanti della collettività cittadina. Rischiamo di considerare questi luoghi come vecchi oggetti di antiquariato, scordandoci come l’antiquariato possa valere molto di più nel futuro. Penso che gli oratori siano contenitori di valori, emblemi di una concezione sana di vita al di là dell’aspetto prettamente religioso (seppur fondamentale). Un comportamento etico che, nella società di oggi, è sempre più messo in discussione e che con tutte le nostre forze deve essere portato avanti. Per il bene di chi oggi sta crescendo al suo interno e per le generazioni future.
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Alessio Pugliese
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