PAGINE DI GIORNALISMO
Quando ci illudevamo di poter cambiare il mondo con un articolo
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9. SEGUE – Era il 21 dicembre del 1976, si sentiva già da molti giorni l’odore di Natale, in pratica psicologicamente eravamo in festa. Milano, dominata dalla splendente Madunina, aveva acceso ogni possibile luce, ma non ci si vedeva niente, la nebbia, quella di una volta, copriva tutto: uomini, cose, palazzi e alberi natalizi. Ricordo che, entrando al giornale (Il Giorno), il portiere canticchiava ridendo “… e la nebia che belessa la va giò per i pulmùn”. Nebbia e Milano formavano allora una coppia di sposi inseparabili, oggi meno, ha vinto il divorzio, fortunatamente. Presi l’ascensore e salii al secondo piano, piano nobile, direzione, segreteria, redazione grafica. Come succede spesso in Italia, la proprietà, l’Eni, quando fu il momento di costruire la sede del giornale, mandò l’architetto negli Usa a vedere com’erano edificate le sedi dei quotidiani, gli architetti tornarono e dissero che erano tutte in orizzontale: perfetto, si misero al lavoro e costruirono un piccolo grattacielo di nove piani di vetro, tutto verticale, una redazione a ogni piano, il grande lavoro dei redattori era andare su e giù: “c’è il tal dei tali?”, “è in ascensore”. Al secondo piano, il segretario di redazione mi accolse con un sorriso poco confortante, mi sembrava di scherno: io ero tranquillo, di solito mi telefonavano per andare in qualche posto, spesso assurdo, quando stavo per mettere in bocca la prima forchettata di spaghetti, la mia minestra: quel giorno era ormai pomeriggio e, quindi, il pericolo doveva considerarsi superato. Sempre con il sorriso a fior di labbra, il segretario De Monticelli, mi informò che a Vienna gli anarchici avevano occupato la sede dell’Opec, l’organizzazione dei principali Paesi produttori di petrolio, e sequestrato una ventina di ministri arabi. E allora?, chiesi, “roba tua – rispose – vai a Vienna, dice il direttore”, e il sorriso si accentuò, “vai dalle segretarie, prendi il biglietto, l’aereo rulla sulla pista”. Lo guardai con odio, “te set on pirla” gli dissi, il suo sorriso si allargò. L’autista del giornale mi accompagnò a Linate, mi chiesi se l’aerostazione esistesse ancora o fosse stata mangiata dalla nebbia, era stata mangiata dalla nebbia, nessun volo fino… non si sapeva. Tornai al giornale. In segreteria dissi che sarei partito in treno, ma l’ultimo treno possibile era già partito, il prossimo mi avrebbe sbarcato a Vienna dopo mezzogiorno del 22 dicembre, tanto valeva rimanere a Milano e inventare un pezzo da inviato in redazione. E in auto?, chiesi a una delle segretarie. La risposta fu immediata: con questa nebbia gli autisti non s’azzardano a partire. Cominciavo già ad accarezzare l’idea di andare a preparare l’albero di Natale per mio figlio Enrico, quando il collega Enzo Lucchi romagnolo pataca ma grande giornalista, mi disse “dài, ti accompagno io, guidiamo un po’ per uno, vado a casa, faccio una borsa e arrivo”. Ero incastrato. Lucchi era il motociclista vestito di pelle nera che attraversa di tanto in tanto la scena di “Amarcord” di Fellini, Scureza era il personaggio. Con Fellini, Lucchi aveva abitato a Roma, entrambi lavoravano per pochi soldi a Paese Sera, poi ognuno aveva fatto carriera, Fellini più di Lucchi. Arrivò, Enzo, dopo una mezzora, aveva una sacca da marinaio norvegese e una pelliccia bianca, di orso?, anche questa è della marina norvegese, mi spiegò. Inutile dirgli che non c’era tanto freddo, non si sa mai, disse. Lucchi era così, pensava ancora al giornalismo romantico, un cocktail composto da fantasia, avventura, coraggio e buona scrittura. Era davvero un altro giornalismo, allora avevamo ancora l’illusione di poter raccontare le cose come se i padroni non ci fossero, pensavamo ingenuamente di poter cambiare il mondo con un articolo o un’inchiesta. Eravamo un po’ coglioni, ma preferisco ancora oggi i pataca ai lacchè brutalizzati al computer da piloti ignoti, noi le cose le vedevamo e le toccavamo, mica ce le raccontava il computer (scusate, considerazioni da vecchio, ogni tanto mi scappa).
Partimmo con l’auto del giornale. Se possibile, la nebbia diventava sempre più fitta, il nostro doveva essere l’unico automezzo in circolazione. Mentre guidavo, Enzo Lucchi leggeva ad alta voce il dispaccio dell’Ansa sui fatti di Vienna: una ventina di ministri dell’Opec prigionieri nella sede dell’organizzazione di un commando guidato da un famoso terrorista, rimasto sempre abbastanza misterioso, Ilich Ramirez Sanchez, noto col nome di battaglia “Carlos”. Quando arrivammo alla frontiera austriaca, la polizia ci chiese dov’eravamo diretti, poi uno domandò “ciornalisti?”, “ya” risposi. “Vienna? Die grosse katastrofen”. Giungemmo nella capitale austriaca alle sette del mattino. Noi non lo sapevamo, ma in quel momento un aereo con a bordo Carlos e il resto della banda, decollava. L’attacco, con sparatoria, di quella che si definiva “braccio armato della rivoluzione araba”, aveva raggiunto un accordo con le autorità viennesi. Nella sede dell’Opec rimanevano soltanto tre cadaveri, un libico, un iracheno e un vecchio poliziotto austriaco. Noi scrivemmo due povere cronache, un vero flop giornalistico, riprendemmo la macchina e tornammo: nel baule rimaneva il pelliccione bianco: Lucchi non l’aveva indossato.
9. CONTINUA [leggi la decima puntata]
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Gian Pietro Testa
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