L’OPINIONE
Scuola, acqua, banche: in difesa della proprietà pubblica
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Come cittadino mi sento in dovere di tornare a parlare di Scuola, perché ritengo sia necessario difenderla e che sia il primo degli investimenti per il futuro del nostro Paese.
E intendo parlarne perché vedo che peggiora di giorno in giorno non per colpa di chi la fa ma per colpa di chi la gestisce senza capirla. E in questo marasma quotidiano capita di tutto, anche di leggere che sempre più spesso i genitori sono chiamati ad intervenire in prima persona in opere di tinteggiatura di aule, cosa che succede ovviamente anche a Ferrara, e che tali interventi siano accompagnati da affermazioni del tipo ‘la buona scuola è proprio quella che parte dal basso’. E non è tutto, si prospetta addirittura di crearne un modello da esportare in altre scuole.
Poi si elogia chi organizza le giornate di lavoro (a cottimo?!?) e si prodiga per diffondere la personalissima cultura del ‘fare, ovvero quelli che, avendo constatato che lo Stato non riesce a intervenire nella cura della ‘cosa pubblica’ , contribuisce a trasferire l’incombenza ai cittadini/genitori.
Un vero capolavoro oltre che un vero capovolgimento della realtà. Chi propone e pubblicizza queste attività è visto come un esempio da seguire e non come colui che annuncia il fallimento dell’amministrazione che rappresenta. I cittadini/genitori che partecipano diventano un esempio di buona cittadinanza e non il risultato del fallimento dello Stato.
Questa distorsione a cui assistiamo da tempo, avendone tra l’altro oramai perso la percezione, è legittimata un po’ dall’intervento di alcuni amministratori, dall’altra dalla nostra colpevole indifferenza ai grandi temi. Qualche settimana fa, ad esempio, l’Amministrazione comunale ha votato la diminuzione delle quote Hera dal 51% al 38%. L’informazione che ci sarebbe stato quel consiglio comunale ha fatto eco sulle mailing list di molti gruppi e comitati di cittadini, di sicuro qualche migliaio di contatti, ma quel giorno, oltre agli attivisti “acqua pubblica” non c’era tantissima gente, forse una quarantina di persone in tutto. Sarebbe stata presa la stessa decisione da parte del Consiglio se fossero stati presenti un migliaio di cittadini a dimostrare la propria contrarietà al provvedimento? Non lo so, ma sarebbe stato bello.
Ma la domanda ora è se sia più costruttivo prestarsi ad imbiancare le aule o ragionare sul perché questo avviene, andare alla fonte, rifiutarsi di essere parte attiva dello sfascio in corso.
Ed in questo contesto ci si potrebbe anche chiedere perché sia più facile ottenere da un genitore tempo per imbiancare aule piuttosto che averlo disponibile per discutere sul perché i fondi a disposizione della scuola diminuiscano di anno in anno.
In ogni caso che la ‘buona scuola’ debba partire dal basso è tutto da dimostrare. Una buona scuola parte da chi è deputato a predisporla, ascoltando e avendo come obiettivo quanto previsto dalla Costituzione, dall’etica comune, dai bisogni dei ragazzi a cui la scuola deve essere rivolta. Ivi compreso la fornitura di ambienti confortevoli.
Non ci sono soldi. Allora perché si continuano a pretendere le prove invalsi? Quanto ci costano e a cosa servono, ne abbiamo bisogno o abbiamo più bisogno di aule decenti? Facciamoci le domande giuste prima di impugnare un pennello.
Viviamo un tempo insensato in cui lo Stato sta’ abdicando dai suoi doveri, ci sta lasciando a noi stessi. Ma a cosa serve un Stato se non è in grado di garantirci nemmeno un’istruzione libera e uguale per tutti, gratuita in un edificio stabile e dignitoso? Che non sa riconoscere e tutelare i valori fondanti di una società con il pretesto continuo della contabilità e contemporaneamente si salvano le banche, si pagano pensioni d’oro, si discute per anni se togliere o meno il vitalizio ai parlamentari condannati, e ognuno di noi potrebbe aggiungere altri esempi a questa lista. A volte il tutto in nome di un’Europa senza anima.
E questo perché anche riguardo ai soldi, alla moneta, abbiamo oramai una percezione distorta. La moneta dovrebbe essere vista per quello che è: un mezzo di scambio, la misura del tempo utilizzato a guadagnarla “perché se compro qualcosa non la compro con i soldi ma con il tempo impiegato a guadagnarli” (Josè Alberto Mujica Cordano), “dire di non avere soldi per sistemare una scuola è come dire che un ingegnere non ha abbastanza chilometri per progettare una strada” (Ezra Pound), “se abbiamo mattoni, operai che vogliono lavorare e cemento possiamo non costruire perché manca la moneta?” (Keynes).
Cos’è più importante il lavoro, lo sforzo umano, il tempo dedicato alle proprie attività o il mezzo utilizzato per misurare tali attività? L’ingegnere che progetta un palazzo o il metro che utilizza per misurare i muri che lo delimitano? Le otto ore che una cassiera della Coop passa ad emettere scontrini e seguire i clienti o i soldi con i quali viene pagata per farlo?
Organizzare l’operosità dei cittadini è un dovere da parte di uno Stato e metterla in secondo piano rispetto al mezzo per misurarla è osceno. Arrivare a permettere delle corvée scolastiche con la litania del ‘non ci sono soldi’ è solo un ritorno al passato a quando la democrazia era solo un sogno, e oggi un preludio a quello che verrà. Che so, cittadini impegnati a tagliare l’erba a turno ai giardinetti, pulizia delle strade la domenica mattina sotto forma di sano esercizio fisico, assistenza agli anziani in ospedale al posto di infermieri stipendiati.
Se lo Stato non interviene perché da ‘buon padre di famiglia’ deve far quadrare il bilancio, riduce se stesso a semplice osservatore degli avvenimenti disegnati da chi non ha l’interesse pubblico nella sua agenda. Il teorema entrate = uscite, e tutte le altre grandi sciocchezze inventate dalla Scuola di Chicago, da Friedman e dalla scuola austriaca di Heydek hanno solo interrotto il grande sviluppo di tutte le economie occidentali protrattosi fino agli anni ’80. Le politiche Keynesiane che avevano invece supportato quello sviluppo, si pensi al ‘new deal’ roosveltiano o al Piano Marshall dell’ultimo dopoguerra, furono semplicemente messe da parte, non si sa in nome di cosa. Certo sono passati anni da quelle benefiche politiche e qualcosa bisognerà pur cambiare, perché bisogna dare la giusta considerazione al momento storico in cui si vive. Ma cambiare in nome di una crescita sostenibile, ecologica, rispettosa del pianeta che ci ospita. Oggi la crescita non è che non sia sostenibile, semplicemente non c’è, stiamo regredendo su tutto.
Allora sì diamoci da fare, ma per riacquistare la giusta percezione delle cose e la dignità delle nostre azioni. Non smettiamo di pretendere ciò che ci spetta. Cominciamo a ragionare ad esempio a soluzioni locali per ripristinare un circolo virtuoso di sviluppo dell’economia. Penso alle esperienze di moneta complementare, che non è alternativa ma complementare appunto. Il Comune, invece di continuare a nascondersi dietro i ‘non si può’, potrebbe farsi sponsor di un’iniziativa in tal senso e pagare professionisti con detrazioni fiscali, accesso ai servizi comunali, sconti Tasi, Imu, buoni ingresso a tutto ciò che da esso è gestito. Rendiamo cioè possibile l’incontro tra i bisogni insoddisfatti (come la manutenzione delle scuole) con risorse non utilizzate (lavoratori disoccupati, sottoccupati e lavoratori in nero). Si cerchi insomma di favorire la creazione di lavoro senza “forzare” il volontariato, pratica sicuramente utile e meritevole ma in altri contesti.
E in tempo di crisi, di quanto benessere in più potrebbe disporre la comunità locale? E sia chiaro che non è una invenzione dell’ultima ora, le monete complementari sono state utilizzate senza interruzioni , in Europa, tra l’800 e il 1800 e sono numerosissime quelle oggi circolanti e funzionanti. Il punto è: quanto del nostro tempo siamo disposti ad utilizzare per cercare di risolvere davvero qualche problema piuttosto che sprecarlo per non risolvere nulla?
Chiudo chiedendo un favore. Qualcuno sta abdicando dai propri doveri, cerchiamo di non seguirli abdicando dai nostri diritti.
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Claudio Pisapia
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