Una delle poche certezze della vita è l’amore di Tim Burton verso qualsiasi cosa sia kitsch e rappresenti una storia di sofferenza. Tutto ciò si racchiude in due grandi occhi di bambino che osserva oltre la tela, catturando lo sguardo dello spettatore che non può far altro se non domandarsi cosa stia guardando e quale sia la sua triste storia.
I dipinti di Margaret Keane, interpretata nel film “Big Eyes” da Amy Adams, sembrano chiedere solo di essere guardati, desiderano che gli si presti attenzione. La stessa richiesta è quella dell’artista, che, schiacciata dalla forte personalità del marito, Walter Keane alias Christoph Waltz, non riesce ad emergere. Vincitrice di un Golden Globe per la migliore protagonista femminile, la storia dei Keane è molto diversa da quelle che normalmente siamo abituati ad associare al regista. Niente spose cadaveri o mostri dal cuore tenero, stavolta sono i personaggi della realtà ad essere protagonisti, bizzarri come se fossero stati partoriti dalla contorta mente di Burton, ricordando l’eccentrico Edward Wood, definito il peggior regista di sempre. L’abile regia di Burton mostra le sfaccettature di un personaggio che si autodefinisce “un artista senza talento”, che si dimostra essere un ottimo imprenditore, capendo la richiesta del pubblico di portare a casa un pezzo dell’opera, non importa se l’originale o una copia.
Ma cosa avrà convinto una donna piena di talento ad affidarsi ad un uomo per gestire la sua carriera? Un semplice concetto, attuale all’epoca come ai giorni nostri: un’opera firmata da un uomo vende molto di più e acquista un valore maggiore. Non la pensavano così solo le pittrici dei primi anni del Novecento, ma anche le artiste moderne, basti pensare alla scrittrice Joanne Kathleen Rowling, la madre della saga di Harry Potter che ammise di essersi firmata solo con le iniziali proprio per lo stesso motivo.
Margaret Keane non è un caso isolato, prima di lei moltissime artiste sono state dimenticate, o hanno perso la paternità (o forse dovremmo dire maternità) delle loro opere. Si potrebbe tentare con un gioco, cercare di ricordarsi il nome di 10 artisti e di 10 artiste del passato in meno di cinque minuti. Da Artemisia Gentileschi a Judy Chicago, le donne hanno sempre dovuto lottare per far si che venisse riconosciuta la loro identità di artiste come professione e non solo come hobby, un passatempo tra un figlio e un altro. La paura di perdere tutto quello che avevano conquistato, unita alla continua pressione psicologica di Walter Keane, che costantemente le inculcava l’idea che la firma di una donna non valesse nulla, aveva paralizzato a lungo l’artista. Margaret Keane, nata Peggy Doris Hawkins, ha subito l’autorità di un marito/carceriere per quasi dieci anni ma la sua ribellione la portò al successo con la vittoria del processo con cui si riappropriò di tutte le sue opere.
Stanche di vedere le donne nei musei solo perché raffigurate nelle opere, un gruppo di femministe, nel 1985, decise di divenire paladino delle artiste, proteggendone i diritti e il valore delle loro opere. Autodefinite Guerrilla Girls, ovvero “ragazze gorilla”, per via della maschera che utilizzano per non farsi riconoscere, combattono perché si aumenti nei musei la presenza di opere firmate da donne. Margaret Keane disegnava occhi enormi perché pensava che fossero la finestra attraverso cui spiare l’anima ed è questa che Tim Burton ci permette di scorgere, attraverso i dipinti e i loro sguardi, che osservano imperturbabili la propria madre alla riconquista della sua identità.
“Big Eyes”, regia di Tim Burton, con Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, biografico, 106 min., Usa 2014
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Chiara Ricchiuti
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