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Atlante Appennino, di Elisa Veronesi

Immaginiamo di entrare in un libro attraverso una soglia, una sola e non altre. E che questa soglia sia la copertina con un’immagine, il titolo del libro e il nome di chi lo ha scritto; e che sia le immagini contenute nel libro, e null’altro. Immaginiamo di ignorare alette, bandelle, quarta di copertina, recensioni e commenti, qualunque elemento paratestuale ed extratestuale.

Solo un nome, un titolo, le figure.

(Così entravo nei libri da piccola).

Qui abbiamo un disegno al tratto, con colori tra oliva e nocciola e noce: rilievi montuosi, valli e dorsali, crinali e boschi, né case sparse né paesi. Nel cielo vuoto, sopra le cime, appare il nome dell’autrice, Elisa Veronesi, e il titolo Atlante Appennino. Un’ecobiografia. Dentro il libro, tre piccole fotografie in bianco e nero; all’interno di entrambi i piatti della coperta, curve concentriche disegnate: curve di livello, ma prive dei valori di quota.

Immaginiamo di portare il libro nello zaino, nell’andare dei giorni, di guardarlo talvolta anche senza leggerlo, anche in carenza di tempo. Vedremo lettere in copertina, in nero e in rilievo, e all’interno dei piatti di copertina vedremo al centro di ogni isoipsa il segno +: mirino, messa a fuoco, segnale.

Chi guarda il paesaggio in copertina si trova in un punto di osservazione elevato, ma non aereo: così che il suo sguardo va sempre al centro, verso una punta montuosa.

Nelle foto interne vediamo una spiaggia, un muro, una finestra e un prato.

Un libro è testo, paratesto e presenza.

Atlante Appennino è uscito da quasi un anno, grazie all’editore indipendente Piano B (1), e ha avuto da subito ottime recensioni: io, però, le ho lette molto dopo aver letto il libro.

Ho iniziato la lettura senza soffermarmi su bandelle e quarta, senza approfondire l’ecobiografia come genere, senza documentarmi, senza informarmi: ho deciso di entrare per quella soglia – titolo autore copertina immagini – e basta. Così ho letto le pagine come frasi; ho letto immagini come sguardi e, solo dopo, parole.

“Atlante oggi è un luogo di rovine”, scrive Elisa Veronesi: “l’Appennino oggi è un luogo di rovine, e la necessità di dirne i resti ne conferma la sparizione”.

Oggi è tardo capitalismo, riscaldamento globale, è il divenire della sesta estinzione; Atlante, fin dal suo nascere in quanto titolo, fin da Gerardus Mercator insomma, è simbolo e strumento del capitalismo, di colonizzazione e spartizione della terra; Appennino è il dorso della penisola italiana – è il mutato antropologicamente, botanicamente e socialmente, è l’inafferrabile, è il refrattario a oggettificarsi in qualcosa di ben definibile.

È l’Appennino del grande spopolamento, è gente e memoria e vuoto, è l’Iperoggetto Appennino.

Ho conosciuto l’Appennino settentrionale – cui questo libro è dedicato – durante la grande fuga degli anni Sessanta, ed è da allora che cammino a volte in Appennino e di questo lungo camminare ho ricordi come di capsule del tempo, di epicedi, di constatate desolazioni, di celebrazioni laiche di frammenti.

Per questo motivo stavo lontana da presentazioni e recensioni, da post e giudizi su questo libro: dovevo entrarci con cautela, e adagio con paratesto ed epitesto. Perché avevo dieci anni quando ho conosciuto l’ecoansia (grazie al racconto delle imprese spaziali) e il pessimismo cosmico (grazie alla Ginestra di Leopardi) ed è dalla soglia delle immagini, del libro nello zaino, del leggere come leggevo a dieci anni, che ora dovevo passare.

Elisa Veronesi sceglie il nome di Atlante non per volontà di potenza, ma al contrario per sconforto e bellezza, e sceglie di cartografare l’Appennino mediante l’ecobiografia, che integra vite e ambiente nel legame tra i viventi e il mondo che abitiamo: sono dunque scritture composite e diverse, dal racconto al frammento filosofico al pezzo biografico alla scrittura di paesaggio, i testi che formano questo libro.

Sono centocinquanta pagine di osservazione e rimemorazione, di sconforto e di inafferrabile bellezza.

E’ un libro che racconta anche di isole – si apre infatti con il mare e la costa, il passaggio tra luoghi e confini, e il migrare – come di vite montanare e di paesi spopolati, come di Nietzsche che passò cinque inverni consecutivi a Nizza, “abbagliato dalla luce che ancora riverbera in questi luoghi”. Racconta di quando una sera di agosto sul fiume “ci sentiamo montagne, siamo montagne”. Di paesaggi ricordati e perduti, di luoghi che scompaiono.

E raccoglie assieme le voci di chi dell’Appennino ha scritto, in un’interessante diffrazione tra un immaginario ligure potente e duraturo – innestato sulla scrittura di Sbarbaro e Calvino, fino a Biamonti e al recente Peninsulario di Marino Magliani (2) – e le tracce della sparizione, dello svuotamento, che popolano le scritture di Raffaele Crovi, di Silvio d’Arzo, di Guido Cavani, fino all’Appennino sinestetico de L’ora del mondo di Matteo Meschiari (3).

E Veronesi dedica a queste voci, a quelle delle persone conosciute nei paesi, alle voci che popolano i suoi racconti e alle voci del Maggio Drammatico – che risale ad antichi culti di rinascita e poi alle canzoni di Maggio, religiose e profane, e tuttora si svolge ogni anno in una valle appenninica reggiana – una scrittura davvero preziosa per vitale e sinestetica pienezza, mostrandoci che si può trasformare il ricordo di un luogo in una mappa celibe, ridisegnarlo, “allentare la presa, alleggerire il passo, imparare a disabitarlo”.

Questo libro è un atlante, ma non contiene mappe disegnate; e io lo ho letto ricordando il modo in cui leggevo da bambina, quando mi meravigliavo della bellezza delle frasi dopo aver cercato le figure. Quando le immagini erano figure, e subito dopo – e assieme – frasi.

In particolare, i testi più aderenti alla forma-racconto presenti in Atlante Appennino mi rammentano il saggio Disegnare sulla carta (4), in cui John Berger descrive tre diversi modi in cui funzionano i disegni: “Ci sono quelli che studiano e interrogano il visibile, quelli che annotano e comunicano idee, e quelli fatti a memoria”.

Mentre nel primo tipo “il tempo è obliterato da un eterno presente. Presente indicativo”, i disegni del secondo tipo sono visioni di “cosa succederebbe se…” e per lo più “registrano visioni del passato ormai a noi precluse”, ma “quando c’è abbastanza spazio, la visione rimane aperta e noi entriamo. Condizionale”.

Il disegno fatto a memoria, spesso per un dolore da esorcizzare o da trasformare, è invece quello che non allestisce alcuna scena, né interroga il visibile, ma “si limita a dichiarare: ho visto questo. Passato prossimo”.

Ma poi ci sono anche altri disegni, in cui tutto sembra esistere nello spazio e ci si trova come alle soglie della creazione del mondo. E “poiché impiegano il futuro, simili disegni prevedono”.

Atlante Appennino è un libro di grande bellezza sinestetica, che trasforma e sviluppa l’energia del pensiero ecopessimista (5): la sua visione – il punto di osservazione di cui dicevo poc’anzi – supera le usuali polarizzazioni tra passato e presente, e tra presente e futuro, illuminando assieme punti perduti del passato, così come molti futuri e molti presenti.

E contiene racconti – mi riferisco a Pietra Makis e a Moho – che narrano un futuro dopo crolli e catastrofi, eppure appaiono così prossimi alla creazione del mondo. Così lucidamente presenti.

Così, invece di una recensione o una presentazione, ho provato a scrivere di questo libro come testo, paratesto e presenza.

Note

(1) Elisa Veronesi, Atlante Appennino. Un’ecobiografia, Prato, Piano B Edizioni, 2024.

(2) Marino Magliani, Peninsulario, prefazione di Filippo Tuena, Trieste – Roma, Italo Svevo, 2022.

(3) Matteo Meschiari, L’ora del mondo, Matelica, Hacca, 2019.

(4) in John Berger, Sul disegnare, a cura di Maria Nadotti, Milano, Scheiwiller, 2007, poi Milano, Il Saggiatore, 2017 (Berger on Drawing, Cork (Ireland), Occasional Press, 2005).

(5) tra i molti libri sul pensiero ecopessimista ricordo qui il recente, e bellissimo, saggio di Claudio Kulesko Ecopessimismo. Sentieri nell’antropocene futuro (Prato, Piano B Edizioni, 2023).

Per leggere i contributi di Silvia Tebaldi su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

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Silvia Tebaldi

Silvia Tebaldi ha scritto racconti e novelle, tra cui Vuoto centrale (2009) per la collana WalkieTalkie di PerdisaPop, a cura di Luigi Bernardi; per Zona 42, Quattro lune di Giove al Capo delle Volte (2021), Il lettore dell’acqua (2023) e I giorni del vuoto (2024); per FangoRadio cura il progr amma Sinestetica. Per lavoro si è occupata di scrittura professionale e tecnico-giuridica, di manoscritti e di fotografia. (linktr.ee/silvia_tebaldi)

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