Skip to main content

Presto di mattina. Pellegrini d’avvento

In sogno ho visto il mondo

La poesia è la danza del linguaggio.
La danza è la poesia del corpo.
Il corpo e il linguaggio che parla il tutto:
Ascolta, senti e vedi.
(Doris Kareva, In sogno ho visto il mondo, Bompiani, Firenze-Milano 2024, 263).

Porterò come me in quest’Avvento e lungo l’anno giubilare oramai alle porte come sogno d’ametista – quel saper vedere l’Oltre, oltre l’orizzonte degli occhi – una poesia dell’amico Daniele Borghini: Attendo il Tuo sguardo eterno, 4 maggio 2000. Ad ogni lettura, i suoi testi me lo ridonano al vivo, e tra le righe della pagina ascolto, sento e vedo il non ancora detto e il non scritto di quella danza del linguaggio che è la poesia, e con lei la speranza che è la poesia “del pellegrino sfiancato e claudicante”.

Attendo il Tuo sguardo eterno
il paterno abbraccio
ristoro senza fine
Quando giungerò a Te
pellegrino sfiancato e claudicante
avrò il cuore pieno di ruggine
ma in un battito d’ali
ogni cosa sarà pacificata
ogni lacrima seccata
La Croce sarà un diadema
incastonato nell’eternità
(La direzione dei miei passi ubriachi. Racconti e poesie, Nuove Carte, stampa Grisignano [VI], 167).

Noi pure pellegrini d’Avvento, perché la poesia rompe il guscio delle parole e, come da contorto e tormentato gheriglio, un germoglio spunta.

Noi pellegrini d’Avvento, perché la speranza, come da scorie di rugginoso e indurito ferro in fuoco di crogiolo, rende nuovamente incandescente la promessa antica: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra, vieni camminiamo nella luce del Signore» (Isaia 2, 4).

«Ecco, a te viene colui che è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato» (Zaccaria 9,9-10),

La poesia, come la speranza, è l’altro sguardo. È persistenza dell’umano nel disumano, della resistenza nell’annientamento. Poesia e speranza vanno infatti insieme e non sono evasione, illusione di cammino, anche quando questo si compie nei camminamenti di una trincea sul Carso nella prima Guerra mondiale.

Ce lo ha insegnato ancora una volta Giuseppe Ungaretti in quel Pellegrinaggio nelle trincee della sua omonima poesia. Il biancospino che prosperava nei giardini di Alessandria d’Egitto dov’era nato, lo ritrova in una «budella di macerie», ora immagine di se stesso: «sono cresciuto/ come un crespo/ sullo stelo torto/ mi sono colto/ nel tuffo/ di spinalba» (Annientamento, Versa il 20 Maggio 1916, Vita d’uomo, 49).

Seme di spinalba perenne sono la poesia e la speranza. Spinalba, spina argentata, bianco riccio (Eryngium spinalba), e pure il suo colore, quando muta, come quarzo d’ametista (Eryngium amethystinum). Pietra d’ametista il cui nome ἀμέϑυστος significa “contrario all’ubriachezza”, forza interiore, antidoto all’ubriachezza del potere e dell’inumana violenza di ogni genere.

In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba
Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio
Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia
(Pellegrinaggio, Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916, Vita d’uomo, 46).

Uomo di pena perennemente in agguato

Uomo di pena come Ungaretti, il “nomade d’amore”, è chiunque non rinuncia alla propria bontà; chi resta umano nello scempio e nella liquefazione brutale del disumano, chi resiste nella sua spirituale corporeità come suola pur logorata e strusciata dal fango.

Così annota Ungaretti: «S’ingannerebbe chi prendesse il mio tono nostalgico, frequente in quei miei primi tentativi, come il mio tono fondamentale. Non sono il poeta dell’abbandono alle delizie del sentimento, sono uno abituato a lottare, e devo confessarlo – gli anni vi hanno portato qualche rimedio – sono un violento: sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita.

Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte. Potrei così commentare Agonia, Pellegrinaggio, quelle poesie del primo momento, di Lacerba, o quelle già del Porto Sepolto, dove mi scopro e mi identifico, dentro gli orrori della guerra, nell’uomo di pena e, come tale, Ungaretti, uomo di pena, mi parrà di dovermi anche in seguito, sempre, identificare» (Note a L’Allegria, ivi, 518).

È con questa pena che m’inoltro anch’io nell’Avvento. Spinalba, un fiore di eringio violaceo, sarà mia compagnia anche nel pellegrinaggio dell’incipiente Giubileo. Che non è per la chiesa, né per se stessi: è per la povera gente, per l’umanità squarciata dal moltiplicarsi delle guerre. Un anno di grazia per i poveri, per le genti, un cammino in loro compagnia, durante il quale forse scoprirò come «i loro occhi sono pieni di tramonto,/ i loro cuori sono pieni d’alba» (Iosif Brodskij).

Indicibilmente e instancabilmente, senza sosta, perenni pellegrini con il viatico spirituale della speranza. «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19).

Preghiera d’Avvento quando sbianca la speranza

Perché non ritorni
tra le nostre rovine
nella notte infinita
che fa impallidire le speranze?
Vieni
a lanciare il Grido
e che sia fermo
unico
impetuoso.
Fai tacere
queste nostre assurde battaglie.
Non più Croce
ma luce subito.
Istante eterno.

Saprò riconoscerTi
anche tra gli affanni
e
nel buio del mio orizzonte?
Riuscirò a vederTi
umile tra gli umili
Croce tra croci?
(Borghini, ivi, 157; 159).

Sempre in cerca di speranza perché “Spes non confundit”

La Lettera pastorale 2024-2025 del nostro vescovo Gian Carlo Perego titola Segni dei tempi, segni di speranza. Tra Sinodo e Giubileo. In essa si indicano i segni di speranza che ci interpellano oggi come singoli e comunità: la pace, apertura e cura della vita, la visita e il perdono ai detenuti, la visita agli ammalati, l’attenzione ai giovani, l’ospitalità ai profughi, migranti, rifugiati. Il settimo segno di speranza sono gli anziani.

In una parola: “dare speranza ai poveri”: «È un tempo per dare speranza, soprattutto ai poveri, che sono milioni di persone che soffrono per la fame, la sete, lo sfruttamento della loro terra e di loro stessi. Come cristiani che vivono il Giubileo che è libertà e liberazione, non possiamo guardare altrove e fingere di non vedere i poveri del mondo, o abituarci a loro. I poveri ci sono anche vicini: di casa, di lavoro, in parrocchia. Per i poveri vicini e lontani dobbiamo impegnarci nella carità e nella giustizia, nella condivisione delle risorse, anche della terra».

Tra le pagine del vescovo Gian Carlo si legge, in filigrana, anche la stessa lettera di papa Francesco per il Giubileo “Spes non confundit”/ la speranza non delude (Rm 5,5). Così scrive il vescovo Gian Carlo: «Sono segni di speranza i gesti e i progetti di accoglienza anche nelle nostre Chiese, segni di una cultura dell’incontro che va contro la cultura dello scarto e del rifiuto, ancora troppo presente e troppo alimentata da certa politica e comunicazione.

Gli esuli, profughi e rifugiati, li vediamo arrivare con i barconi (dopo una traversata del Mediterraneo per chi riesce) sulle nostre coste o attraversare i Balcani per giungere in Europa, costretti da guerre, cambiamenti climatici, miseria a lasciare il loro Paese.

Molti nelle nostre comunità, li vedono come degli sfaticati, degli approfittatori. Alcune donne di loro sono state anche fermate con delle barricate in un nostro Paese. Chiusure e pregiudizi sembrano alzare nuovi muri dentro e fuori. Invece è un popolo della vita – fatto di neonati, bambini, giovani, donne e mamme, uomini e padri, famiglie –, che è partito dalla sua terra animato solo dalla speranza di un futuro diverso, ma anche di incontrare un mondo diverso.

Le nostre comunità, la Caritas diocesana, hanno regalato bei segni di accoglienza in questi anni. Occorre che questi segni facciano cultura e diano speranza a noi e ai migranti, non restando momenti occasionali, ma segni a cui far seguire, la tutela, la promozione e percorsi di integrazione che riguardano non solo chi viene accolto, ma anche chi accoglie».

“Pellegrini di speranza”

È il motto scelto da papa Francesco per il Giubileo. Egli ricorda che «Dobbiamo tenere accesa la fiaccola della speranza che ci è stata donata, e fare di tutto perché ognuno riacquisti la forza e la certezza di guardare al futuro con animo aperto, cuore fiducioso e mente lungimirante. Per questo ho scelto il motto Pellegrini di speranza. Tutto ciò però sarà possibile se saremo capaci di recuperare il senso di fraternità universale, se non chiuderemo gli occhi davanti al dramma della povertà dilagante che impedisce a milioni di uomini, donne, giovani e bambini di vivere in maniera degna di esseri umani».

Il pellegrino di speranza, come il poeta Iosif Brodskij, non si ferma ad alcuna meta, né in se stesso, né in un luogo: «oltre Mecca e Roma,/ arsi da un sole livido/ vanno per la terra i pellegrini./ Storpi, gobbi,/ affamati, mezzo vestiti,/ i loro occhi sono pieni di tramonto,/ i loro cuori sono pieni d’alba».

Credere è non fermarsi alla propria fede e nemmeno a un Dio nel tempio. Nessuna meta né oceano né continente può fermarli. Essi riprendono infinitamente il loro andare verso ciò che brilla ancora oltre. Al poeta solo resta la speranza che della via è il canto.

Sulla pelle
ho sperimentato due oceani e due continenti,
mi sento quasi come il globo: non
c’è più un posto dove andare. Solo stelle
più in là. E brillano.
(Poesie 1972-1985, Adelphi, Milano 1986, 89).

Pellegrini

Oltre arenghi, tempietti,
oltre chiese e bar,
oltre monumentali cimiteri,
oltre grandi bazar,
oltre mondo e mare,
oltre Mecca e Roma,
arsi da un sole livido
vanno per la terra i pellegrini.
Storpi, gobbi,
affamati, mezzo vestiti,
i loro occhi sono pieni di tramonto,
i loro cuori sono pieni d’alba.
Davanti a loro cantano i deserti,
lampeggiano bagliori lontani,
le stelle ardono sopra di loro
e rauchi gridano per loro uccelli:
che il mondo resterà lo stesso,
sì, resterà lo stesso,
accecante di neve
e difficilmente tenero,
il mondo resterà falso,
il mondo resterà eterno,
forse, comprensibile,
ma tuttavia infinito.
Il che significa che non avrà senso
credere in se stessi e in Dio.
… Il che significa che rimarranno solo
le illusioni e la strada.
E siano tramonti sulla terra,
E siano albe sulla terra.
I soldati la concimino.
I poeti la cantino.
(Iosif Brodskij, Pellegrini. Strofe del secolo. Antologia della poesia russa Minsk-Mosca, 1995 in L’Osservatore Romano del 27 maggio 2024, 12).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

sostieni periscopio

Sostieni periscopio!

tag:

Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *



Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it

SOSTIENI PERISCOPIO!

Prima di lasciarci...

Aiuta la nostra testata indipendente donando oggi stesso!