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Elezioni Regionali Emilia Romagna: non serve cantar vittoria.

Nei giorni scorsi si è votato per le elezioni regionali in Umbria e in Emilia-Romagna. Ormai come una litania che si ripete, sono subito partiti i commenti sull’incremento forte dell’astensione, salvo dimenticarsene il giorno dopo e, soprattutto, senza mettere in relazione questo dato con il risultato elettorale.

Mi spiego meglio: si è passati, con molta disinvoltura, per stare alla situazione dell’Emilia-Romagna – alla quale farò riferimento anche per i dati successivi – a sottolineare come il 46,42% di affluenza al voto, con una diminuzione di più del 20% rispetto al 67,87 delle elezioni regionali del 2020, rappresenti un valore preoccupante, per poi, subito dopo, misurare i risultati elettorali dei singoli candidati o liste in termini percentuali su quell’affluenza, per cui, ad esempio, si è evidenziato il forte balzo positivo registrato dal candidato De Pascale rispetto al consenso arrivato a Bonaccini nel 2020, che si attesta a più del 5%.

Niente di più sbagliato o, perlomeno, guardato con una lente distorta. In realtà, per capire sul serio quello che è successo, come sanno tutti quelli che svolgono analisi sul voto, occorre ragionare sui voti raccolti in termini di valori assoluti. E allora, a meno che non si voglia continuare ad utilizzare un approccio autoreferenziale da parte delle forze politiche per continuare lungo le strade consolidate, ci appare un panorama un po’ diverso da quello che è stato largamente propinato.

Intanto, in termini appunto assoluti, il calo dell’affluenza di più di 20 punti percentuali, fermatasi, come già detto al 46,42%, significa una perdita in 4 anni di più di 700.000 voti, dai circa 2milioni e 370mila del 2020 ai circa 1 milione e 660mila di oggi.
Lo schieramento di centrosinistra, che ha appoggiato De Pascale, sempre per stare all’illusione ottica di prima, avanza di di circa il 5,3%, ma perde più di 270.000 voti (e  sia detto per inciso, il 56,77% dei voti ricevuti calcolati sull’insieme del corpo elettorale significa che il centro-sinistra ha un consenso pari al 26,3% dei cittadini emiliani aventi diritto al voto, poco più di 1 su 4!). Peggio va alla destra, che perde circa 360.000 voti rispetto alla tornata precedente e cala anche in termini percentuali del 3,5%.

Arrivando ai risultati dei singoli partiti, registriamo che al +8,25% del PD, giudicato da tutti come grande avanzata, fino ad aver fatto parlare di “cannibalizzazione” degli altri alleati, diventati “cespugli”, corrisponde un saldo negativo di circa 108.000 voti;
il M5S cala di più di un punto percentuale (dal 4,74% quando nel 2020 si era presentato da solo al 3,55% di oggi) e di ben quasi 50.000 voti.
Anche Alleanza Verdi-Sinistra non va meglio,
comparandola, ovviamente, con la somma dei voti di Europa Verde e Emilia-Romagna Coraggiosa, che nel 2020 erano andati separatamente alla prova elettorale: la perdita è dello 0,42 in percentuale, dal 5,72% al 5,3%, ma di ben più di 44.000 in termini assoluti ( da 123.000 circa a poco più di 79.000 circa).
A sinistra, in controtendenza, c’è solo la lista “Emilia-Romagna per la pace, l’ambiente e il lavoro, che, rispetto al 2020 ( anche qui sommano i voti delle forze che si presentavano separatamente) cresce dello 0,73%, arrivando all’1,94%, e di circa 5000 voti, che, però, denota poca capacità di espansione in relazione al bacino elettorale “classico” di questa formazione.

Insomma, uno sguardo attento ai processi reali non può che concludere che la crisi della rappresentanza politica ed elettorale continua e si aggrava, che si ingrossano le file di chi pensa che la politica è distante dalla loro condizione di vita. Che al voto si recano sempre più le persone che hanno già una convinzione radicata, tendenzialmente di appartenenza ad uno schieramento politico (e infatti lo scambio di voti tra centrosinistra e destra è praticamente inesistente).

Ancora, ma questa è ovviamente una mia valutazione politica: l’appannamento delle distanze delle politiche tra centrosinistra e destra, in particolare per quanto riguarda le scelte di politica economica e sociale (mentre rimangono sul piano “ideologico”, con riferimento soprattutto al tema dei diritti civili e all’idea di maggiore o minore dose di autoritarismo come leva di governo della società complessa) determina, contemporaneamente, disaffezione e motivazione del voto, più in termini di contrasto allo schieramento avversario che di condivisione delle scelte politiche concrete.
Ciò, a me pare valga ancor più per il voto che si indirizza al centrosinistra: un voto che mette insieme l’intenzione di allontanare la destra dal governo, che si traduce nell’enfatizzazione della spinta a costruire uno schieramento unito e che si nutre anche di una pessima legge elettorale regionale ( vince chi arriva primo al turno unico) che appare costruita su misura per rafforzare le due tendenze appena evidenziate.

Sbaglierebbe, e non poco, il centrosinistra e il PD, che ne è diventato ancor più parte determinante, se, come ha fatto la presidenza dell’ ex Bonaccini, scambiasse per consenso reale alle proprie politiche le motivazioni che pure l’hanno premiato sul terreno elettorale. Soprattutto perché le tendenze strutturali che hanno determinato la crisi del modello emiliano, su cui ho già avuto modo di scrivere, non solo continuano, ma, anzi, sono destinate ad aggravarsi.

In specifico, una struttura produttiva che si finanziarizza sempre più e diventa dipendente da un livello decisionale internazionale, distanziandosi in termini progressivi dal sistema di piccole e medie imprese autocentrate, un welfare che si assottiglia, anche perché costretto dalla camicia di forza di una nuova stagione di austerità che proviene dall’Europa e dal governo nazionale, e l’approfondirsi della crisi climatica ed ambientale, che non si ha il coraggio di affrontare con la necessità di una radicale conversione del modello produttivo e sociale, produrranno un ulteriore acuirsi delle contraddizioni che già oggi percorrono intensamente la società emiliano-romagnola. A cui si aggiunge, appunto, la crisi della partecipazione e della rappresentanza elettorale, assieme all’incapacità di misurarsi con forme più avanzate della democrazia, come quella partecipativa, ben esemplificata dalla mancanza di volontà emersa nell’ultima legislatura di discutere le proposte di legge di iniziativa popolare regionale.

Di tutto questo la politica dovrebbe rendersi conto e decidere conseguentemente di mettere in campo una svolta profonda, che non è direttamente venuta dal pronunciamento elettorale, ma che viene reclamata dalle tendenze reali del corpo sociale. E che, a questo punto, dovremmo provare a rafforzare con il rilancio della partecipazione e della mobilitazione sociale.

Cover: Eraclea 280 a.C.  Pirro,  per vincere i Romani, utilizzò per la prima volta gli elefanti. 

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Corrado Oddi

Attivista sociale. Si occupa in particolare di beni comuni, vocazione maturata anche in una lunga esperienza sindacale a tempo pieno, dal 1982 al 2014, ricoprendo diversi incarichi a Bologna e a livello nazionale nella CGIL. E’ stato tra i fondatori del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua nel 2006 e tra i promotori dei referendum sull’acqua pubblica nel 2011, tema cui rimane particolarmente legato. Che, peraltro, non gli impedisce di interessarsi e scrivere sugli altri beni comuni, dall’ambiente all’energia, dal ciclo dei rifiuti alla conoscenza. E anche di economia politica, suo primo amore e oggetto di studio.

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