Presto di mattina. La Terra del tramonto
«C’è nell’uomo un “uomo nascosto all’uomo”»
La terra del tramonto è un saggio di Ernesto Balducci sulla transizione umana, non solo ecologica, ma planetaria, nel quale si sostiene che, arrivati ad una soglia di complessità e coscienza, è dato all’uomo passare oltre se stesso: oltrepassarsi. Il tutto non senza crisi di crescenza, criticità, involuzioni ma anche possibilità di attingere a risorse nuove e abitare orizzonti nuovi.
Una fine dunque che nasconde un inizio ed un arrivo come rimbalzo per una ripartenza (startup): in ogni tramonto è celata l’aurora. Anche simbolicamente, del resto, ogni tramonto è un punto di arrivo provvisorio; è figura della terra “edita”, conosciuta, ma in essa si nasconde una terra inedita, dal volto sconosciuto.
Novus mundus disse Amerigo Vespucci nel 1503 approdando nelle Americhe; “cambiamento d’epoca” ha indicato il tempo presente papa Francesco.
Lo stesso accade per l’umanità e la sua storia così come per ciascuno di noi. Siamo doppi in noi stessi, ricorda Balducci, che ricorre al linguaggio di Ernst Bloch nel suo libro Il Principio speranza, per dire questa identità in divenire del flusso di coscienza umano.
L’uomo edito (homo editus) del già e l’uomo inedito (homo ineditus o absconditus) del non ancora. In questa frattura instauratrice della terra, al tramonto dell’homo editus proteso oltre se stesso, proiettato verso l’ignoto, sta ciò che è costitutivo dell’uomo e della sua storia e tiene insieme le due identità, l’acquisita e quella in divenire. Questo principio costitutivo è la speranza.
«L’uomo inedito non coincide con l’uomo edito e tende a trascenderlo proiettando oltre di esso possibilità che non passano all’atto perché non esiste ancora una terra su cui esse possano poggiare i piedi e cioè non è ancora arrivato al punto giusto il sistema globale delle reciprocità. L’uomo edito è il punto d’approdo momentaneo del flusso coscienziale che arriva da lontano attraverso le metamorfosi della specie e che nel cristallizzarsi in una determinata identità culturale non esaurisce la tensione creativa che lo ha generato» (La terra del tramonto. Saggio sulla transizione, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole [FI] 1982, 50).
Tramonto nomade
Per Giuseppe Ungaretti la terra del tramonto è quella del «nomade d’amore». Il tramonto, il volto del cielo che s’incarna nella terra, risveglia inedite oasi di quiete dopo tappe e arsure di deserto.
Si tratta tuttavia di un approdo e riposo provvisorio, perché il verbo usato è risvegliare, associato moralmente all’alba, e il tramonto diviene così un attimo fuggente, punto di arrivo e di ripartenza, transizione non priva di straniamento, uno scarto e nondimeno frattura instauratrice in cui l’uomo edito trapassa nel suo inedito.
Sempre in balia del viaggio, all’uomo sempre in ricerca delle sue segrete risorse è concesso il tramonto.
Tramonto è un testo brevissimo scritto da Ungaretti a Versa frazione del comune di Romans d’Isonzo il 20 maggio 2016.
Il carnato del cielo
sveglia oasi
al nomade d’amore
(Vita d’uomo. Tutte le poesie,.28).
Ricorda ancora Balducci che il linguaggio dell’uomo inedito è quello simbolico, ovvero il linguaggio capace di tenere unite e mettere insieme realtà diverse. Così poesia e profezia sono le voci attraverso cui è udibile e comunica la speranza. All’uomo inedito, come un porto sepolto, vi arriva il poeta; egli giunge a quel «nulla di inesauribile segreto».
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto
(Porto sepolto, ivi 42).
«Tutte le parole sono nate come simboli e poi, com’è loro destino, sono entrate a far parte della grammatica convenzionale, son diventate utensili che trasmettono il pensiero ma non comunicano, nel senso che non realizzano lo scambio tra due interiorità.
La nostra si chiama civiltà della comunicazione ma in realtà è la civiltà della trasmissione. Solo la poesia, quando c’è, viene a interrompere le trame delle parole e delle immagini che chiedono da noi non l’interazione creativa ma il consumo passivo.
Allora le parole immerse nella tensione dell’uomo inedito che aspira a un mondo misurato su di sé perdono la loro inerte disponibilità all’uso e si caricano di un senso segreto (di ‘indefinito’, diceva Leopardi) che ci trascina, se abbiamo orecchie e abbiamo occhi, in quella patria dell’essere di cui l’uomo inedito conserva la nostalgia, o, per meglio dire, la speranza, dato che quella patria non è alle nostre spalle, come un Eden biblico, è dinanzi a noi come identità possibile tra uomo inedito e uomo edito, tra essenza ed esistenza…
E infatti il linguaggio connaturale all’uomo inedito è quello della profezia che ha il suo tratto tipico nel riferimento al futuro inteso come luogo della pienezza. Il linguaggio profetico non è quello che si avventura in predizioni trascritte in calendari immaginari, è quello che denuncia l’inaccettabilità della città presente e descrive la città futura nella quale si sarà definitivamente avverata la coincidenza tra il possibile e il reale» (Balducci, 57; 51-52).
Terra del tramonto, terra di futuro
«Così la terra del tramonto dischiude all’uomo inedito il futuro come un processo non solo di transizione ma di trasformazione, come una metamorfosi, una trasfigurazione. Il futuro dell’uomo nascosto nell’uomo non è il tempo a venire i cui contenuti sono già nel presente; è il tempo che ci viene incontro portando con sé, come possibilità oggettive, nuovi modi di essere rispondenti alle possibilità soggettive latenti in noi.
Ci manca – ed è questo il nostro vero dramma – una mappa delle possibilità umane, perché siamo imprigionati in un’immagine univoca di uomo costruita e imposta, con tutte le iridescenze dell’universalità, dalla cultura in cui siamo cresciuti.
Quell’immagine si sta lacerando e proprio per questo si riapre dentro di noi la dialettica tra uomo inedito e uomo edito. In forza di questa dialettica acquista senso la circostanza che è totalmente nuova nella storia: la compresenza, anzi in certi casi la convivenza di molte umanità, ciascuna delle quali ci apre un distinto spiraglio sulla totalità umana» (ivi, 55).
Come direbbe la poesia l’ineffabile segreto del tramonto?
A proposito dell’uomo inedito che è in lui, Carlo Betocchi scrive che una nube lo nasconde, ma non manca in lui la paziente speranza che «qualcosa non tramonta con il tramonto»:
Lentamente, cosi, sempre in un senso,
le veritiere sorti volgeranno,
quella più luminosa alla più fioca
unite, e a una stessa distanza,
in un disegno
che una nube nasconde e non il tempo.
Che le guida al tramonto, suscitando
in altre l’ineffabile segreto
in custodia alla notte,
e ai miti tetti, ed all’altane;
dove ad un filo di vento si disseta
segretamente l’erba disseccata.
(Carlo Betocchi, Tutte le poesie, 532
Fraterno tetto; cruda città; clamore
e strazio quotidiano; o schiaffeggiante
vita, vita e tormento alla mia anziana
età: guardatemi! sono il più càduco,
tra voi; un rudere pieno di colpe sono…
ma un segno che qualcosa non tramonta
col mio tramonto: resiste la mia pazienza,
è come un orizzonte inconsumabile,
come un curvo pianeta è la mia anima.
(ivi, 361).
E non finisce qui. A Carlo Betocchi risponde Mario Luzi con una poesia a lui dedicata per i «suoi meravigliosi settanta anni»: nel silenzio del tramonto è nascosta la luce del risveglio.
Nel corpo oscuro della metamorfosi
“Tu che hai visto fino al tramonto
la morte di una città, i suoi ultimi
furiosi annaspamenti d’annegata,
ascoltane il silenzio ora. E risvegliati”
continua quell’anima randagia
che non sono ben certo sia un’altra dalla mia
alla cerca di me nella palude sinistra.
“Risvegliati, non è questo silenzio
il silenzio mentale di una profonda metafora
come tu pensi la scoria. Ma bruta
cessazione del suono. Morte. Morte e basta”.
“Non c’è morte che non sia anche nascita.
Soltanto per questo pregherò”
le dico sciaguattando ferito nella melma
mentre il suo lume lampeggia e si eclissa in un vicolo.
E la continuità manda un riflesso
duro, ambiguo, visibile alla talpa e alla lince.
(Tutte le poesie, 381).
Christus editus e Christus indetus
Anche tra il Cristo edito, così come è venuto narrandosi attraverso i modelli culturali e religiosi, e il Cristo inedito, quello che si cela nel futuro di ogni umanesimo, esiste un punto cristico, una discesa nel nulla, un tramonto appunto che tuttavia nasconde in sé un’apertura, una transizione creativa, anzi generativa.
L’ineffabile segreto della speranza, la sua forza, sta in quella frattura instauratrice che è la croce del Cristo, spes unica, salendo la quale ne ha determinato il suo passaggio, ed anche il nostro, verso un nuovo mattino, verso l’homo novus e il cantus novus.
Il Cristus absconditus è così il Cristo nomade d’amore che il tramonto sulla croce risveglia ad un’alba nuova. Il primo Adamo transita nel nuovo Adamo: Cristo. Così il mistero di Colui che verrà è leggibile già nel tempo in quelle pagine viventi che sono le multiformi manifestazioni di umanità planetaria; così pure vi è un vangelo edito ed uno nascosto dentro la vita di quelle persone che in umanità si fanno nomadi di amore.
Scrive ancora Balducci: «Di fronte a questo nuovo inizio ogni altra particolarità culturale e religiosa è legittima, nel senso che non è chiamata a misurarsi con la particolarità storica di Gesù: ogni itinerario umano ha il suo venerdì santo dinanzi a cui si apre, per un paradosso predisposto da Dio, la Pasqua della resurrezione.
“Per i mille sentieri della nostra religiosità cercavamo Dio e finivamo per fare delle immagini di noi stessi. Egli però ci ha cercato e ci ha trovato là dove eravamo completamente perduti e alla fine. A Lui Dio ha detto il suo sì e il suo amen e lo ha risvegliato dai morti” (H. Vogel)”.
Ogni umanesimo, anzi, ogni religione è al di qua di questo punto limite: l’Uomo abbandonato da Dio è sceso agli inferi, è sceso cioè in quella condizione in cui il futuro dell’uomo si identifica col nulla, una condizione in cui, così amo pensare, si trovano in comunione con lui anche coloro che sono diventati atei per amore» (ivi, 152153).
«Egli salì sul tramonto» (Sal 68 [67], 5)
Ai piedi del faro, non c’è luce (Ernst Bloch), così occorre salire “sul tramonto” per scorgere nella croce la vita, nel tramonto l’alba: «incinta di luce, il bianco seme del sole».
«Spianate la strada a chi sale sul tramonto. Il Signore salì “sul tramonto” che fu la sua morte. Effettivamente il Signore salì “sul tramonto” in quanto la sua morte gli servì come alto piedistallo per manifestare maggiormente la sua gloria mediante la risurrezione. Salì “sul tramonto” perché risorgendo calpestò la morte che aveva affrontato».
Questa immagine bella e suggestiva l’ho trovata leggendo nella liturgia delle ore nella festa di san Luca evangelista; un’omelia sui Vangeli di papa Gregorio Magno (Om. 17, 1-3; PL 76, 1139). Mi sembrava celasse dell’altro, mi attraeva cercare il senso nascosto del versetto di quel salmo che certamente significava fare strada al vangelo ancora inedito per editarlo sulle pagine della propria vita.
Una prima tappa fu la traduzione italiana molto poetica ma differiva nelle parole dal testo dell’omelia: «Preparate la via a colui che cavalca attraverso i deserti le nubi», attraversando e orientando la transizione umana. Pensai poi che il riferimento di papa Gregorio era il testo latino della Bibbia detta Vulgata trovai: «Cantate Deo, iter fácite ei qui ascéndit super occásum / fate strada a colui che ascende sopra l’occaso». Occaso è participio passato di “occidere”, cadere, finire e nel senso figurato, tramontare. Più aderente il testo latino che ricalca quello ebraico: “è salito sull’occidente” dove il sole tramonta.
E pensare che proprio questo versetto comparso solo ora in conclusione, come al tramonto, è stato come la prima luce che ha illuminato la scrittura di questo testo, che mi ha portato attraverso la terra del tramonto ancora a “presto di mattina”.
E così mi unisco al canto del “poeta di passo”, Carlo Betocchi “passo dell’uomo di vocazione… che si muoveva nell’aria esclusiva della sua libertà” (Carlo Bo); egli ha scritto del poeta d’amore che proprio al tramonto nel perdersi degli anni ritrova l’incanto irresistibile del verso: «”Nulla al mond’è che non possano i versi”,/ io leggo, e mi ferisce quell’incanto/ del poeta d’amore, e sento quanto/ della lettura in memoria va a perdersi (ivi, 601; 603; 519).
Canto per l’alba imminente
Sei, come Dio ti vuole,
ima* incinta di luce,
bianco seme del sole
che poi in monte riluce:
se quel peso ti duole
tanto, non fai lamento,
non augello ancor sento
che col canto t’ allegri a portar croce.
Misteriosa e bianca
da chius’acqua orientale
tu risali, e s’affranca
la mia pena mortale:
patisci e ti fai stanca
nel destare la rosa
che nel sole va sposa;
poi ti perdi nel ciel, virgo immortale.
([*ima = corda munita di piombi, che tiene la rete sul fondo], Betocchi, 39-40)
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