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Ferrara Film Corto Festival: uno sguardo personale, oltre le giurie ed i premi

Il Ferrara Film Corto Festival, giunto alla settima edizione, non richiama a Ferrara le stesse folle del festival di Internazionale, ma l’atmosfera lo ricorda: tanti giovani, sia tra gli organizzatori, sia dietro le quinte, sia tra il pubblico. La differenza è che, in questo caso, Ferrara non è solo il luogo in cui si svolge il festival, ma è il luogo di provenienza del nucleo di intelligenza collettiva che lo anima. Eugenio Squarcia è il direttore artistico, Sara Bardella è l’organizzatrice degli eventi, la “nostra” Simonetta Sandri è alla comunicazione, Sergio Gessi è alla presidenza della Ferrara Film Commission – FFC (per il team completo, leggi qui).

E’ impossibile raccontare di ogni cortometraggio proiettato all’interno del Festival. Non ci riuscirei nemmeno se li avessi visti tutti. Ancora meno sarei in grado di esprimere un giudizio da “giurato”. Però venerdì sono riuscito, per conto di Periscopio (uno dei partner del festival), a intervistare tre registi di altrettanti corti che ho visto. Corti che hanno una cosa in comune, anche se sono molto diversi tra loro.

La cosa in comune è che quello che viene prima e quello che viene dopo è altrettanto importante di quello che c’è dentro il film. Succede anche nei racconti: il nucleo condensa un frangente che fa intuire antefatti e immaginare evoluzioni. Entrambi non possono che essere accennati, per la natura stessa del mezzo usato. Poi ci sono corti che addirittura si avvicinano al linguaggio della poesia, dove i nessi tra i fatti e gli stati d’animo non hanno nemmeno più una successione logica e temporale, ma si trovano condensati in parole – in questo caso, immagini – che scatenano una perturbazione della memoria, dei sensi e dello spirito.

E’ (per me) il caso di “Trinidad”, del regista messicano Josè Manuel Azuela Espinosa. La vicenda dei tre nipoti che rubano da un cimitero le ceneri del nonno ucciso per tenerle con sè non è mostrata in modo lineare, e nemmeno attraverso quelli che classicamente vengono chiamati flash-back – e il regista me lo ha confermato. E’ piuttosto un pannello di immagini che mi ha trasmesso un senso di panta rei, per cui nulla si crea nulla si distrugge ma tutto si trasforma; e mi sono sentito al sicuro come una delle nipoti dentro l’abbraccio delle radici nodose degli alberi centenari. Ho chiesto al regista se l’intenzione era anche quella di mostrare il posto che la (arrogante) specie umana deve ricordarsi di occupare nel mondo naturale. Josè mi ha sorriso da sotto i baffi e ha annuito; forse per non imbarazzarmi, visto il mio pessimo spagnolo. E’ un corto senza dialoghi, senza parole: le immagini parlano un linguaggio universale. La luce restituisce un’atmosfera che riporta al realismo magico.

Luigi Cianciaruso è il giovane regista e autore de “Il treno Speciale”, che prende spunto dal terribile incidente ferroviario avvenuto nel 2016 sulla tratta Andria – Corato. Mi ha confermato quello che avevo “capito”: che quel maestro e quell’allievo, che non si parlavano pur essendo uno di fronte all’altro nello scompartimento di quel treno, una volta dentro questo sogno (o questa esperienza di afterlife) si sono liberati dei ruoli e delle convenzioni sociali, e si sono reciprocamente conosciuti attraverso le passioni che non hanno più avuto timore di comunicarsi: la pittura e la bici per il professore, la poesia per l’allievo. Il tutto in un’atmosfera serena e libera dalle convenzioni, dalle barriere e dal dolore.

 

Andrea Fabbri è il regista di “Orme”, un corto che parte dalla storia dell‘Argentiera, frazione di Sassari, la cui vita sociale nella prima metà del secolo scorso ruotò attorno alla miniera di zinco e piombo (che fece anche tanti morti di silicosi), per poi svuotarsi alla chiusura della miniera stessa. “Non avevamo nulla e avevamo tutto”, dice una anziana abitante ricordando i “tempi d’oro” (meglio, di piombo). Oggi l’Argentiera è una terra relitta, che conta 54 residenti. Inframezzato dal racconto quasi mitologico della sommersione di Tirrenide  – quel continente ora sott’acqua che alcuni ritengono una Atlantide del Mediterraneo occidentale, che comprendeva anche la attuale Ichnusa (“orma” in sardo e, appunto, il nome greco della Sardegna) – il cortometraggio (negli accenni del suo giovane regista Andrea Fabbri) mostra il recupero di una struttura abbandonata all’Argentiera per farla diventare un centro culturale. Fa impressione vedere tutti questi giovani al lavoro non per edificare qualcosa di nuovo, ma per recuperare il vecchio e ridargli un senso ed una funzione attuale, pur in un lembo di terra magnifica, ma anche aspra e precaria.

 

 

Concludo con una menzione personale per “The fisherman, the alien, the sea” di Elisabetta Zavoli, che non era presente fisicamente e quindi non ho potuto “intervistare”. Questo corto mostra la giornata – forse sarebbe meglio dire la notte – del pescatore della sacca di Goro alle prese con l’invasione del granchio blu, che divora tutta la fauna e quindi il fatturato del Consorzio Pescatori. Attraverso la narrazione del giovane presidente del Consorzio, ripreso al lavoro nella luce torpida e nell’atmosfera amniotica della Sacca, si passa dalla paura del nemico (il granchio blu appunto), alla consapevolezza della totale distruzione della fonte di guadagno, all’aggressione del problema per trasformarlo in opportunità attraverso il recupero di una modalità di pesca praticata dal nonno, e infine verso una presa di coscienza che nel breve periodo il granchio blu è una sciagura, ma nel lungo periodo può diventare un bene, economico e culturale. Sol che si sappia “cambiare quando la natura decide di cambiare”.

 

In copertina: immagine tratta da Trinidad, di Josè Manuel Azuela Espinosa

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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