Tirocini distruttivi
Ti offrono un contratto di tirocinio: paga bassa, full time, tante speranze e nessuno che ti dica che molte di quelle speranze, purtroppo, rimarranno totalmente infondate.
Che teneri, noi giovani! Crediamo che, una volta finito il nostro percorso di studi, verremo assunti con uno stipendio dignitoso che ci permetta di non indebitarci dal fornaio. Speriamo ancora, piuttosto ingenuamente, che prima o poi qualcuno riconosca il nostro valore, che ci dia fiducia e decida di investire nel nostro futuro.
Baggianate, del nostro futuro ora io vedo solo le vaneggianti baggianate su cui ci siamo crogiolati durante il nostro percorso di studi, per rincuorarci e autoconvincerci che tutta la fatica verrà ripagata.
La mia primissima esperienza lavorativa è stata davvero traumatica, e di quello stage, di quell’incubo ad occhi aperti, da dimenticare, non mi era rimasto altro che la speranza che la prossima esperienza non sarebbe potuta che essere migliore, vista l’impossibilità di peggiorare.
Iniziamo con l’elenco dei personaggi della mia storia:
- un capo assente, che di tanto in tanto riappare all’improvviso, dopo settimane di assenza, con il tipico fare angosciante di un dissennatore, che, volteggiando tra un ufficio e l’altro, mormora cose a caso, rimproveri senza fondamento, frasette fatte senza logica continuativa tra l’una e l’altra, tentando di incutere timore con affermazioni inconsistenti a scopo intimidatorio ( ma più che intimidire confondono);
- una tutor che non parla, che accennando labili sorrisini rimane taciturna. La intravedi di tanto in tanto aleggiare dal suo ufficio alla stampante, scambiare un mezzo saluto per grazia concessa, o meglio, un cenno di saluto, e poi ritornare in ufficio;
- le “colleghe”, che avrebbero dovuto formarmi, ma che alla fine avrebbero preferito distruggermi ( non so ancora quanto di quei barbari atteggiamenti fossero intenzionali, ma sicuramente non c’era l’intenzione né di formarmi, né di affiancarmi, in niente);
- la donna delle pulizie, gentile, amante delle chiacchiere. Forse avrò parlato più con lei in quei pochi minuti la mattina prima che andasse via, che con le “colleghe” in mesi interi.
Le “colleghe”
C’era la “collega” aggressiva: lei di certo non aleggiava, galoppava. Sentivi il suo passo pesante da metri di distanza, il suo respiro affannato e ansioso, il nervosismo caricarsi come un toro inferocito, la maleducazione che iniziava a riempire la stanza prima ancora che lei iniziasse a parlare… insomma se fossi stata Spiderman, i miei sensi da ragno mi avrebbero fatta fuggire via in tempo, ma ormai ero lì, povera preda indifesa, senza lavoro, senza un soldo.
Inutile dire che qualunque domanda facessi per lei era una domanda stupida.
Inutile dire che probabilmente non fosse cosciente del fatto che fossi lì per imparare, da poco, che le sue spiegazioni fossero mal organizzate e frettolose, un po’ arrabbiate anche loro, che non fosse cosciente che era suo dovere rispondere a quelle domande, e magari ripetere le risposte, se necessario, in modo migliore.
Inutile dire quanto ogni parola rabbiosa che usciva da quella bocca cavallina era pronunciata con un senso di disturbo costante, misto a nervosismo e disprezzo… verso di me, verso il mondo, verso se stessa? Chi lo sa, qualcosa mi dice che non avrei mai voluto saperlo, e posso dire, ora come ora, che non lo saprò mai, e per fortuna.
Le sue rapide “spiegazioni” erano scandite da un puntuale tono infastidito e saccente, frammentarie come un indovinello, un macabro gioco a premi, in cui io avrei perso comunque e il premio sarebbe stato solo per lei: tentare di sbranare la mia dignità.
Spesso mi rivolgevo a lei come se avessi dovuto parlare con un orso, di quelli molto affamati, ringhiosi, che non aspettano troppo prima di saltare addosso alla preda indifesa: mani avanti e tono basso, scandire bene le parole in modo che non risultassero una minaccia per la belva allo stato brado (perché lei poteva offendere, ma non poteva essere offesa)… Chissà, magari al posto della mia calma e gentilezza avrebbe fatto più effetto un tranquillante ( o due) per cavalli… o dell’acqua benedetta!!
L’altra “collega”, finta tranquillina coi nervi a fior di pelle, almeno spiegava, qualche volta, rispondeva, il più delle volte, saccente ma non troppo, in bilico tra l’infastidito e il “non sono pagata abbastanza per accollarmi pure questa”.
Se osavi fare due volte la stessa domanda, magari a distanza di giorni… Sacrilegio! Non si fa! Dimenticare qualcosa in un un ambiente nuovo (e questo, nello specifico, particolarmente caotico), stracolmo di tantissimi input, spesso in contemporanea… Non si fa! Far sprecare fiato prezioso alle poverine, piene di lavoro… Non si fa! E io ero la str***a che non faceva niente (forse perché non le spiegavano niente, ma futili dettagli);
C’era poi la dipendente repressa, la finta calma, un po’ insipidina, con la vocina sommessa, ma anche lei dall’infastidimento molto facile.
A questo punto credo ci fosse qualcosa nell’aria, in quel posto, visto che erano tutti perennemente infastiditi.
Ogni mattina ero sola, circondata dalla solitudine totale, ogni tanto vedevo un dissennatore nervoso, ogni tanto un saluto forzato. Clienti che andavano e venivano, due chiacchiere con la donna delle pulizie, e i mesi sono passati.
Il “dissennatore”
Più di una volta il dissennatore mi ha urlato contro, rinfacciandomi i miei errori, che, per carità ho fatto, nulla di irreparabile, ma li ho fatti. Oltre ad urlarmi contro per cose che avevo fatto, mi ha rinfacciato anche cose che non avevo fatto, o meglio, che non potevo fare perché non ero stata formata in merito. Urlava contro di me, attribuendomi la colpa di cose che non facevo perché semplicemente non sapevo farle.
Traduzione e parafrasi di “dissennatorese”: urlava contro di me perché si stava rendendo conto che la tirocinante doveva essere formata, ergo non era utile all’azienda come aveva saggiamente (maldestramente ) pianificato (o forse, solo sognato la notte).
Perché ovviamente ha senso prendersela con chi deve essere formato e non con chi deve formare: un filo logico, seppur flebile, ci deve essere, o quantomeno era la logica malmessa del povero dissennatore incompreso… che non sapeva coordinare i suoi dipendenti. E chissà se ha mai seguito un corso di leadership, poi. Se lo ha fatto, i risultati sono stati a dir poco infruttuosi.
Dulcis in fundo, tra un urlo e l’altro, sono state messe in dubbio persino le mie capacità intellettive, mnemoniche, attentive, comunicative, ad un certo punto mi hanno portata a dubitare persino di aver preso una laurea, di come mi chiamassi e chi fossi.
L’empatia scarseggiava come acqua nel deserto, mentre il fastidio, quel cavolo di fastidio, tracimava. In pratica non mi voleva nessuno là dentro, forse nemmeno chi mi ha assunta. E la domanda allora sorge spontanea: perché assumermi, se dopo poco ve ne siete pentiti e fin da subito avete provato fastidio nell’avermi lì, sfogando su di me il fatto che non mi avreste mai voluta? Perché?
È un nuovo hobby assumere tirocinanti per passare il tempo, senza avere la premura di ORGANIZZARE la formazione, GESTIRE i dipendenti affinché venga davvero fornita (anche se avrebbero preferito un bastone arroventato nel deretano piuttosto che formarmi), COORDINARE e MONITORARE il tirocinante e i dipendenti, al fine di assicurare una buona formazione continuativa (vera) e quindi dei buoni risultati nel tempo (non dopo due settimane)? Strano modo di divertirsi, prendendo decisioni affrettate, senza prendersi nemmeno la briga di pensare alle conseguenze.
Il tirocinio è…
In Italia ormai si continua a legalizzare lo sfruttamento di poveri tirocinanti disperati in cerca di lavoro e di sostentamento per non morire di fame, facendo proprio leva sulla loro disperazione, dopo aver rischiato magari di mandare sul lastrico i propri genitori per ottenere una laurea.
Si continuano a normalizzare comportamenti MALEDUCATI, INAPPROPRIATI e AGGRESSIVI da parte dei propri datori di lavoro e “colleghi”, in particolare del capo, solo perché nelle sue mani c’è il potere di mandarci fuori a calci.
Senza contare che però il suo potere risiede solo in quello, perché chi agisce con spropositata aggressività e immotivata maleducazione cela, dietro quel fare tracotante, una profonda debolezza, una sconfinata insulsaggine e una più che evidente incapacità di ricoprire il ruolo di dirigente.
Per non parlare poi dell’incapacità di rispettare l’essere umano (sì, perché si parla di esseri umani, non di pezzi di cartone), di valutarlo e osservarlo, con i dovuti tempi e accortezze, dedicandogli del tempo per crearsi un’idea basata sui fatti e non sui pregiudizi affibbiati frettolosamente, e soprattutto con i propri occhi, non con quelli degli altri.
Assumere un tirocinante non deve essere un gioco, fatto con superficialità, un buttarlo negligentemente nella fossa dei leoni per scommettere sulla sua vita. Il tirocinio è più un escamotage per pagare meno e far lavorare tanto, senza la benché minima formazione. Il tirocinante viene gestito come un peso, a meno che non diventi in grado di acquisire conoscenze in totale solitudine tramite illuminazioni spirituali… No, anzi, non è gestito affatto.
Sarebbe ora si smettesse di equiparare un tirocinio allo sfruttamento, e il tirocinante, non deve essere per forza bistrattato solo perché non sa, perché sbaglia, ma dovrebbe essere capito e accompagnato nel suo percorso formativo proprio per le stesse ragioni.
L’empatia non deve rimanere solo un’antica leggenda, che riecheggia nelle pubblicità della Mulino Bianco, o in qualche banale film strappalacrime, una mera strategia comunicativa delle pubblicità, ma dev’essere qualcosa che ci faccia riavvicinare alla nostra natura di esseri umani, prima che dipendenti, prima che dirigenti, di esseri viventi dotati di sensibilità e di un vissuto unico, che va rispettato, sempre, e mai giudicato.
Le critiche, ci devono essere, quelle belle, quelle davvero formative, ma non quelle distruttive. Le critiche servono, aiutano a crescere, a migliorarsi, e tanto meglio se vengono fatte anche dagli altri, oltre che da noi stessi. Ma è estremamente importante che queste critiche mirino ad una resa migliore, a dei risultati positivi, non a distruggere, a disintegrare la sensibilità dell’altra persona, fino a limitarla e ad ottenere i risultati opposti, in cui l’unico a gioire è il sadismo di chi non conosce empatia, ma solo disprezzo e vacuità di contenuti (eh sì, sia intellettivi che morali).
Questa esperienza non mi ha distrutta, mi ha formata, a suo modo, mi ha insegnato a mettere dei paletti, a distinguere la formazione e le critiche costruttive dal semplice annichilimento (tentato ma non riuscito) di una persona che avrebbe voluto solo imparare, senza mollare alla prima difficoltà, al primo ringhiare inconsulto di un nevrotico orso imbizzarrito.
Smettiamola di normalizzare la violenza (anche se solo verbale, anche se “solo” psicologica) nei luoghi di lavoro (come da qualunque altra parte, in qualunque tipo di situazione) : l’errore è un conto e la persona è un altro. Nessuno si deve sentire in diritto di offendere qualcun altro solo perché ha sbagliato, perché non apprende abbastanza in fretta per sopperire alle carenza di personale, o non ha ancora sviluppato la capacità di leggere nel pensiero.
Ed è proprio da qui che si nota la grandezza di una persona: l’umiltà e la sensibilità con cui si pone verso gli altri, che sia un superiore, un sottoposto, un semplice tirocinante, uno sconosciuto.
Sostieni periscopio!
Giusy de Nittis
Commenti (2)
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lavoro nella sanità _ salute mentale. sono stata tutor di molti studenti tirocinanti. ho affiancato molti colleghi neo assunti. mi ritrovo nelle tue riflessioni. mi consolo sapendo che le persone che ho affiancato si sono motivate e hanno condiviso l’idea che ci vuole passione e che il lavoro di gruppo è fondamentale sia per il clima lavorativo che per i”clienti”. ho cercato di creare capacità critica e “disobbedienza civile”. non potevo risolvere gli aspetti di sfruttamento, nonnismo e competizione ma spero di aver ben seminato. dalla tua con la speranza che tu sarai una professionista diversa
Inserirsi in un luogo di lavoro nuovo l’ho sentito come fossi un’immigrata: ho compreso il vissuto di chi, venendo da luoghi lontani, prova a inserirsi in una nuova realtà dove viene giudicato per quello che non sa.
Quando mi sono trasferita da una scuola ad un’altra, quasi tutte le nuove colleghe davano alle mie domande sulle loro abitudini e sulle caratteristiche degli studenti/studentesse, come se io fossi un’incompetente, come se chiedessi di essere guidata e non si rendevano conto che volevo solo conoscere il nuovo posto di lavoro. La risposta standard era che ero libera di fare ciò che credevo. Ma vah!
Da allora ho capito come si sente un, una migrante in una nuova realtà, la inferiorizzaziine che subisce. Da allora a chiunque arrivasse, supplente o collega esperta, ho dato sempre le informazioni che ritenevo più utili, sulle caratteristiche più specifiche della scuola, senza aspettare che chiedessero. Perché non facilitare il lavoro delle persone? Tutti ne ricavano giovamento. Perché non facilitare l’inserimento di chi arriva da lontano? Vivremmo meglio tutti. .
Penso poi che ci siano altri due aspetti all’origine della vicenda raccontata: il grado di violenza del potere che viviamo quotidianamente nelle relazioni, dove il carico che subiamo si rovescia su qualcun altro appena possibile e il provincialismo, la ristrettezza di vedute, l’arretratezza dell’imprenditoria. Ricordo un collega per me molto preparato, che raccontava di venire umiliato dai datori di un precedente lavoro, che non gli toglievano gli occhi di dosso commentando ad alta voce quello che faceva. È chiaro che non sono questi i modi per ottenere il meglio da chi hai assunto. Aggiungo pure che una giovanissima collega mi diceva che in un’esperienza negli Stati Uniti aveva ricevuto fiducia e responsabilità, come non troverebbe mai in Italia.
Quindi, comprendo profondamente il tuo vissuto e penso che sia importante averlo espresso perché alla fine ci richiama al bisogno di relazioni serene a cui va data risposta se non vogliamo sprofondare sempre più.