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Ferrara film corto festival

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Racconti in corsia

La Direzione infermieristica mi aveva proposto l’accettazione del day hospital oncologico, dopo venti anni impiegati presso il servizio di nefrologia e dialisi dello stesso ospedale nel quale lavoravo.

Desideravo fare esperienza in altre realtà specialistiche.

Non sapevo nulla di tac, pet, risonanze, istologici, chemioterapie… attese e speranze.

Fino ad allora i miei cari erano morti d’altro.

Ero stata scelta per la mia formazione infermieristica e la mia laurea umanistica.

Poi, in me, c’è anche una predisposizione al dialogo, all’ascolto, all’interesse verso la vita delle persone.

Si, perché, oltre la malattia, le persone hanno anche una vita, come tutti gli individui sani.

Avevo capito che mi sarei potuta impegnare nel ruolo di “facilitatore infermieristico”.

Facilitare e accompagnare il paziente nel percorso di cura, perché già a creare intoppi ci aveva pensato la vita, facendo provare a queste persone uno degli arresti più grandi.

Un giorno un signore di circa 40 anni mi disse:

«Immaginati su di un lettino al mare in una splendida giornata di sole in compagnia della tua famiglia e dei tuoi amici. Inaspettatamente il cielo si fa grigio. Tu pensi di farcela a prepararti alla pioggia, ma non ce la fai.

Improvvisamente il vento e la sabbia negli occhi, non ti permettono di scappare guardando dove stai andando. Non vedi più gli amici, i tuoi famigliari, non sai nemmeno più se stai correndo dalla parte giusta. Non senti più le loro voci, le loro grida.

Succede così quando arriva una diagnosi di cancro. Rimani solo.

Era importante che il paziente si sentisse unico nel grosso numero di utenti del quale il nostro servizio doveva prendersi cura.

Mi sentivo parte nella lotta per sconfiggere la malattia, anche se a volte sconfiggerla non si poteva.

C’erano a volte pazienti che non potevano aspettare il loro turno di chiamata perché fisicamente provati. Cercavo di far capire loro che, se per un attimo l’immagine di sé era venuta meno, davanti ai miei occhi non era così.

Accogliere, non semplicemente accettare, al di là di un numero di chiamata per il rispetto della privacy.

Ho capito che la paura più grande è che qualcuno si dimentichi di te.

A volte ti assale il dubbio di essere seguiti dal medico giusto, che la terapia sia quella giusta.

Accadeva che, titubanti, mi chiedessero di poter avere una relazione medica della loro condizione fisica per avere un altro parere. Li rassicuravo che era una richiesta legittima, perché penso non ci sia nulla di più sconfortante che avere il dubbio di non aver fatto la scelta giusta.

Di ricordi ne ho tanti: il pensiero della mamma per il suo bimbo ancora troppo piccolo se le fosse accaduto l’irreparabile, il sogno del marito di fare il viaggio più volte rimandato con la moglie, il pensiero di chi ha una attività propria, o di chi un lavoro lo ha appena trovato.

Accadeva che un familiare mi incontrasse lungo il corridoio dell’ospedale e mi chiedesse di andare a salutare il suo caro ricoverato in degenza, magari prima di essere trasferito in una residenza esterna. Mi ricordo in particolare di un mio coetaneo che si era scusato perché aveva le gambe scoperte: «Non importa, ci vediamo poi in Day Hospital non appena ti sei rimesso». Gli avevo risposto.

Non ce l’avrei fatta a ridere o sorridere insieme a lui, se avessi pensato che non sarebbe stato cosi. Che non l’avrei più rivisto.

Non è vero che ci si rassegna a morire, ci si spera fino all’ultimo. Per quel giorno regalato, per quella settimana in più inaspettata, per quei mesi non programmati, magari anni.

E poi c’erano le vittorie, quelle che ho capito porta la ricerca.

Ero in accettazione anni fa. Improvvisamente passa una ragazza, attraversa il corridoio, mentre il medico la invita per la visita conclusiva dopo la chemioterapia.

Richiama la mia attenzione, quasi gridando perché avevo un altro utente davanti, dicendomi ridendo: «Ciao Marcella, hai visto…… ho i miei capelli!»

Nella stanza dove si fa la chemio, indossando il casco refrigerante per non far cadere i capelli, c’è un grande pannello con una mia poesia che mi ha ispirato quella ragazza.

Io che lei non avesse i capelli non lo avevo notato.

Io la guardavo negli occhi quando si presentava davanti a me.

Lei mi voleva dire che quella che avevo visto in accettazione durante le terapie non era lei.

E questa è la mia poesia dedicata a tutte le donne che ho visto negli anni.

Io non sono quella che vedi tu

 Io non sono quella che vedi tu
ho occhi brillanti e ciglia lunghe e vere
mi fermano le lacrime quando non voglio vedere
Io non sono quella che vedi tu
ho capelli lunghi, folti e neri
d’estate li raccolgo, d’inverno li lascio liberi e fieri
Io non sono quella che vedi tu
ho il sorriso facile e velocità di pensiero
ho un cuore tranquillo e un sogno leggero

Io non sono quella che vedi tu
….sorridimi….
così che io possa credere che sorridi al mio futuro e a quella che ero
a quella che, anche se solo per un attimo,
non sono più.

 Per leggere gli articoli di Marcella Mascellani su Periscopio clicca sul nome dell’autrice

 

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Marcella Mascellani

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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